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22/11/24 ore

Caso Siri, governo tra subalternità e giustizialismo


  • Luigi O. Rintallo

Con la non-conferenza stampa, dove il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha annunciato che intende revocare l’incarico di sottosegretario all’esponente della Lega Armando Siri, dopo che questi è stato raggiunto da un avviso di garanzia per un’indagine di corruzione, i cronisti politici si interrogano sulle sorti del governo. A ben vedere, però, l’intera questione può fungere da parametro per considerazioni che vanno al di là dello scontro polemico e che riguardano aspetti più generali della dialettica democratica.

 

È bene partire dalle motivazioni indicate dal premier per giustificare la sua decisione. Conte ha precisato che non deriva da una valutazione di natura giudiziaria, ma piuttosto da una salvaguardia dell’etica pubblica dei soggetti di governo. Poiché in qualità di senatore, il sottosegretario Siri sarebbe intervenuto per proporre emendamenti che estendevano esenzioni fiscali a specifici destinatari, ciò lo collocherebbe in un perimetro di inaffidabilità.

 

Eppure, compito della rappresentanza parlamentare è proprio quello di recepire le istanze e le richieste provenienti dalla società, per cui sarebbe alquanto problematico contestare la disposizione all’ascolto in quanto tale, perché minerebbe la natura stessa delle dinamiche delle democrazie rappresentative.

 

Né è pensabile stilare un registro di priorità in base all’ampiezza degli interessi da tutelare, perché altrimenti gruppi estremamente circoscritti resterebbero privi di interlocutori nelle sedi di rappresentanza politica. In pratica non c’è provvedimento che non sia il risultato di un simile andamento: forse che non vi siano interessi di parte nel promuovere i vantaggi all’incremento delle auto elettriche? Sono molto graditi ai produttori di batterie, per esempio. 

 

Si dirà: il punto è se la pressione lobbista sia esercitata ricorrendo alla corruzione. Ma allora, in questo caso la valutazione sul caso Siri non può che sconfinare nel giudiziario, contrariamente a quanto in modo insincero si è finora sostenuto.

 

Tuttavia, per sapere questo occorrerebbe per lo meno attendere il rinvio a giudizio, mentre invece non lo si è fatto. Ci si è mossi piuttosto nell’ottica di una strumentalizzazione politica dell’inchiesta, che serve al Movimento 5 stelle per ridurre gli spazi di manovra dell’alleato leghista nella prospettiva del prossimo confronto elettorale del 26 maggio. Per la Lega può risultare problematico opporsi alle dimissioni di Siri, tenuto conto della campagna mediatica in atto. E difatti quasi tutti gli osservatori confermano che alla fine essa accetterà obtorto collol’esclusione di Siri dalla compagine ministeriale.

 

A questo punto, però, affiorano altri problemi che riguardano tanto il versante giudiziario, quanto quello politico dell’intera vicenda. Per il primo, registriamo ancora una volta l’uso distorto – e di fatto anti-costituzionale – delle procedure da parte della magistratura inquirente.

 

L’avviso di garanzia da strumento a tutela del cittadino indagato, viene brandito come arma di condizionamento nel confronto tra le forze politiche, grazie anche alla perversione dei rapporti instauratisi fra certe procure e mondo dei media. E ciò avviene a discapito della terzietà che dovrebbe caratterizzare l’ordine giudiziario, che di fatto diviene protagonista dell’agone politico: sia ciò un effetto indiretto o corrispondente alla determinazione di assumere il ruolo di esclusivo decisore nella vita del Paese.

 

In ogni caso è qualcosa che non dovrebbe mai succedere in uno Stato di diritto.

 

Per quel che riguarda gli aspetti più immediatamente politici, cedendo alle pulsioni giustizialiste il Movimento 5 stelle da un lato conferma la sua anti-politica e, dall’altro, finisce appiattito sul fronte mediatico-giudiziario facendosene semplice portavoce. Il che lo colloca in posizione di oggettiva subalternità, aggravata dalla tendenza a praticare i due pesi e le due misure nel trattamento dei processi.

 

Per di più, in questo caso, dopo che per settimane si è alluso all’inquinamento mafioso del partner di governo, rimanerci al fianco significa davvero preoccuparsi più della poltrona che di ogni altra cosa: il che non è certo un bel biglietto da visita di fronte all’elettorato. 

 

l quale, non va dimenticato, ha sempre contraddetto nell’urna i sostenitori del giustizialismo: è accaduto nel 1987 con il referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, all’indomani del caso Tortora, e poi nel 1994 quando gli eredi del pentapartito sgominato dalle inchieste milanesi ottennero la maggioranza a dispetto del “popolo dei fax” e del favore popolare evocato da alcuni procuratori.

 

 


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