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24/12/24 ore

Premierato: nessuna critica costruttiva solo prediche di chi ignora i danni dello status quo


  • Luigi O. Rintallo

A otto mesi dalla sua presentazione, martedì 18 giugno il Senato ha approvato in prima lettura la legge costituzionale sul cosiddetto “premierato” con 109 voti favorevoli della maggioranza governativa contro i 77 delle opposizioni, comprensive oltre che del Campolargo (PD, 5Stelle e AVS) anche di Azione e Italia Viva, la quale ha accantonato il suo iniziale favore.

 

Evidentemente le modifiche apportate al testo originale, che pure hanno di molto attenuato le limitazioni di intervento del Capo dello Stato, non sono bastate a dissipare le motivazioni di dissenso impedendo un allargamento dell’area di consenso per la riforma.

 

È comunque significativo che al posto dei leader dei partiti di opposizione, a lasciar memoria nelle cronache giornalistiche del confronto in aula, siano stati piuttosto gli interventi dei senatori a vita Liliana Segre e Mario Monti

 

A ulteriore conferma o della debolezza delle leadership attuali, o del loro disimpegno verso il tema delle riforme istituzionali in contrasto coi trascorsi del passato, quando esso era invece un cardine della loro proposta: basti ricordare il programma del 1994 del PDS di Achille Occhetto favorevole all’elezione diretta del premier o le modifiche suggerite dalla bicamerale presieduta da Massimo D’Alema.

 

Sarebbe ingiusto e malizioso supporre che i due senatori abbiano espresso la loro contrarietà al testo perché, nel primo dei suoi otto articoli, contiene l’abolizione della figura dei senatori a vita. In realtà, entrambe le personalità hanno svolto il ruolo del front man che riporta gli argomenti di quanti respingono ogni ipotesi di modifica alla Costituzione emanata nel lontano 1948

 

Non a caso, ha fatto seguito un appello – prontamente enfatizzato dalle testate a titolazione unica del duopolio informativo «Corriere» e «Stampa-Repubblica» – di centottanta costituzionalisti che hanno descritto la riforma come “preoccupante” per la sopravvivenza stessa della democrazia. 

 

In tal modo riprendendo l’impostazione data sin dal settembre 2023, quando alla proposta era stata affibbiata sic et simpliciter l’etichetta che la definiva come “potenzialmente eversiva”, quasi che ogni aggiornamento di un ordinamento, obiettivamente datato oltre che inidoneo a garantire l’equilibrio fra legittimazione rappresentativa e governo del sistema, rappresentasse un sacrilegio

 

Un approccio che richiama più la forma del dogmatismo assoluto, che non quella del libero confronto disposto a considerare pragmaticamente ragioni ed opportunità della riforma. 

 

Lo si comprende ancor meglio se si prendono in esame nel merito le obiezioni avanzate dai senatori a vita. Dal discorso della senatrice Segre, ad esempio, emerge che il principale motivo di preoccupazione verte sulla possibilità che, con i cambiamenti apportati dalla nuova legge, la maggioranza che sostiene il Presidente del Consiglio uscito eletto possa ipotecare anche la scelta del futuro Presidente della Repubblica imponendo il suo candidato al Parlamento. 

 

Ora, si dà il caso che ciò sia esattamente già avvenuto nel 2006 e nel 2015, con l’elezione dopo il quarto scrutinio prima di Giorgio Napolitano e poi di Sergio Mattarella dai soli partiti di Centrosinistra, senza che questo abbia “allarmato” più di tanto le odierne sentinelle della Costituzione. 

 

Va inoltre aggiunto che, in entrambi i casi, l’elezione per il Quirinale si svolse in assemblee i cui componenti erano stati collocati sui loro seggi da sistemi di voto che prevedevano premi di maggioranza e, quindi, non compiutamente aderenti alle percentuali di consenso espresse dai votanti del corpo elettorale, riducendo così il grado di legittimazione di una figura di garanzia qual è il Capo dello Stato.

 

 Per lo meno, nel testo approvato in Senato, ciò potrà eventualmente verificarsi solo dopo che nelle prime sei votazioni (non più solo tre) sia andata a vuoto la ricerca di un candidato davvero bipartisan.

 

Nella deriva interventista del Quirinale, che ha distinto i suoi due ultimi inquilini, va fra l’altro individuata la molla che ha spinto a questa accelerazione verso l’elezione diretta del premier. Proprio il succedersi di una serie di “governi del Presidente” ha contribuito ad accentuare le persistenti anomalie della Repubblica italiana, a cominciare dall’assoluta unicità dell’investitura di Mario Monti operata nel 2011 da Giorgio Napolitano che, dopo avergli dato il laticlavio di senatore a vita, lo posizionò alla guida del governo, sostituendo senza il passaggio elettorale quello di Berlusconi formatosi a seguito del voto del 2008.

 

Una condizione che si è più volte ripetuta (con Letta, Renzi, Conte e Draghi) anche durante il primo mandato di Mattarella e che ha fatto sì di avere a Palazzo Chigi premier che non vi pervenivano da una chiara indicazione degli elettori (tanto che due di loro nemmeno erano parlamentari), ma attraverso procedure di vertice rispondenti a criteri non sempre uniformi e limpidi, contribuendo ad alzare di nove punti percentuali le astensioni dal voto all’indomani del governo tecnico di Mario Draghi (dal 27,1 al 36,1%).

 

Queste premesse sono del tutto ignorate proprio dall’ex presidente del Consiglio Mario Monti, intervenendo nel dibattito al Senato. Le sue critiche sono ancor meno persuasive di quelle avanzate da Liliana Segre, anche perché si pongono sulla scia di altre sue inquietanti esternazioni intese a limitare l’influenza della libera e democratica partecipazione dei cittadini, sino al punto di prefigurarne una presunta nocività.

 

La generosa auto-attribuzione di meriti alla sua esperienza governativa, lo spinge a individuare il limite della legge di riforma nel fatto che “non consentirebbe più quei gradi di flessibilità nel sistema che a volte si sono dimostrati utili in situazioni di emergenza in Italia e altrove”. 

 

È implicito nella frase l’elogio per una pratica quanto mai aliena da un governo autenticamente democratico, per cui il ricorso alla proclamazione di stati di emergenza serve in realtà a garantire l’inalterabilità dei sistemi di potere oligarchico: fenomeno che l’Italia repubblicana ha vissuto più volte e non solo recentemente. 

 

Quanto poi siano davvero utili ed efficaci i provvedimenti adottati da governi siffatti, bastano i dati esperienziali a smentirlo: nel merito specifico, si è visto come i famosi “compiti a casa” abbiano tutt’altro che prodotto gli effetti desiderati e tanto meno conseguito gli obiettivi di avere meno burocrazia, giustizia più veloce e mercato del lavoro dinamico richiesti dalla nostra partnership in Europa. 

 

Del resto, che Monti non sia affatto preoccupato del deficit di rappresentatività dei governi è dimostrato dal suo fastidio per il contrario, come si rileva nel suo ultimo libro: Demagonia (Solferino ed.; 2024). Il neologismo – demagoniaevoca infatti l’agonia delle democrazie, che sarebbero schiave della ricerca di consenso da parte di politici che rincorrono la contingenza e mancano del coraggio di compiere scelte impopolari. 

 

Peccato che difficilmente possa riconoscersi tale coraggio nei “tecnici” come Monti, visto che hanno goduto prima dell’investitura dall’alto e poi, alla prima occasione, si scaricano da ogni responsabilità per le scelte compiute scrivendo così: “Ho dovuto somministrare agli italiani un pasto sgradevole che porta il mio nome, anche se è stato cucinato in collaborazione da Mario Draghi e da Silvio Berlusconi”.

 

Oggi il confronto sulla riforma costituzionale ha pertanto preso questa china, che non agevola una meditata e realistica valutazione delle poste in gioco

 

Di certo, a quanti credono ancora nella possibilità dell’allargamento di una partecipazione responsabile che potenzi il grado di democrazia nel Paese, l’idea di delegare la sovranità a oligarchie preoccupate solo di preservarsi e disposte a prescindere dalla volontà popolare è quanto mai poco auspicabile. 

 

(foto da la Repubblica)

 

 


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