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22/11/24 ore

Rappresentanza politica e consenso. Caparbio percorso di una classe dirigente preda di una tisi dell’anima


  • Luigi O. Rintallo

Mentre la platea politico-mediatica attende i riflessi politici del discorso del Presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, tappa interlocutoria della crisi in corso, è opportuno soffermarsi sul rapporto tra rappresentanza politica e consenso. Se lo facciamo considerando un periodo ampio, che inizia almeno dalla metà degli anni Settanta, scopriamo alcuni caratteri costanti che rivelano il manifestarsi di un problematico divario fra le domande emergenti nel Paese e le scelte operate dai gruppi dirigenti, siano essi politici o economico-amministrativi.

 

Quando, dopo il referendum sul divorzio del 1974, si profila la possibilità di un superamento dell’impianto post-Yalta basato sul “bipartitismo imperfetto” tra Dc e Pci, che inchiodava l’Italia nell’anomalia di una mancanza di alternativa al governo, l’opzione compromissoria e consociativa soffocò sul nascere l’evoluzione verso una democrazia compiuta al pari delle altre nazioni occidentali.

 

Il Pci rimase in mezzo al guado, rinviando quella “svolta” che in modo approssimato e confuso realizza Occhetto solo dopo il dissolvimento dell’Urss nel 1991. Nel frattempo il Paese sopportava un lungo quindicennio di violenza politica che, se dapprima servì a giustificare l’unità nazionale, in seguito fu utile a ostacolare un percorso compiutamente riformatore, diffondendo le tossine di un “diciannovismo” di ritorno, e – contemporaneamente – con l’introduzione delle norme atte a reprimerla diede la stura al debordare a-costituzionale della corporazione in toga. 

 

A fare le spese di questi eventi fu l’Italia tutta, per la quale gli anni ’70 rappresentarono un “decennio mancato” in termini di possibilità di sviluppo, appesantiti come furono da una deriva statalista che costruì un pauroso quanto costoso edificio normativo, che nemmeno fu sfiorato in seguito dall’inversione di rotta mondiale del decennio seguente, consegnando il Paese al controllo pervasivo e immobilista di apparati sindacal-burocratici-corporativi detentori di fatto dei veri poteri decisionali.

 

Dopo il 1989, si delinea nuovamente una possibilità di cambiamento, dal momento che il sistema politico potrebbe finalmente svincolarsi da tutta una serie di obblighi che ne limitavano la capacità d’azione. Ma anche stavolta tale potenzialità viene bloccata da un lato proprio a seguito dei mutamenti intervenuti a livello internazionale, con la conseguente marginalizzazione dell’Italia e la sua perdita di rilevanza strategica, e – dall’altro – a causa delle preoccupazioni delle oligarchie interne timorose di veder compromessa la salvaguardia delle proprie rendite di posizione. Il montare dell’anti-politica porta alla definitiva de-virilizzazione della politica, come strumento di gestione dei conflitti tipici di una società avanzata, e alla sua subalternità rispetto a soggetti e forze, sia interni che esterni. 

 

La finta dialettica bipolare della cosiddetta seconda Repubblica, fra centro-destra e centro-sinistra, certifica l’anestetizzazione di un corpo elettorale che pure manifesta chiaramente di essersi liberato dalle “gabbie ideologiche”, senza tuttavia far sì che le sue domande di autonomia e dinamismo sociale trovino un’adeguata rappresentanza.

 

La stagnazione diventa la cifra distintiva dell’ultimo decennio, sia in termini economici sia in termini politici, poiché – come dimostrano i fatti recenti – nemmeno il sorgere di nuovi partiti garantisce la presa in carico delle istanze che salgono dalla società italiana, dopo la chiusura del ciclo storico aperto dalla globalizzazione e giunto ora al suo esaurimento manifesto.

 

Le ipotesi oggi circolanti per la soluzione della crisi di governo confermano anzi il distacco siderale della classe politica dalla situazione reale. L’immobilismo del governo Conte negli ultimi mesi, dopo l’emanazione dei due provvedimenti simbolo dei suoi contraenti – reddito di cittadinanza e quota cento – lo descrive come un computer nel quale sia stato collocato un trojan: in realtà, come abbiamo a suo tempo sostenuto, sin dall’inizio era chiaro come anch’esso fosse espressione del gattopardismo teso a conculcare ogni ipotesi di cambiamento reale

 

La riproposizione di identici schemi tattici del passato, dimostratisi ampiamente inefficaci, convince della irrimediabilità della tisi dell’anima – come evidenziò già nel 1993 in "Hanno ammazzato la politica" il direttore Rippa - che devasta i nostri gruppi dirigenti. Ma soprattutto sconcerta l’incapacità e la caparbietà a non invertire linee politico-economiche rivelatesi fallimentari, che si spiega soltanto in termini di dipendenze inconfessabili. 

 

(immagine da impronralaquila.com)

 

 


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