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12/10/24 ore

Riforme costituzionali: proposte ancora fuori bersaglio


  • Luigi O. Rintallo

Rispetto all’immobilismo che bloccò il Legislatore per oltre un ventennio, dalle prime esortazioni ad ammodernare la Costituzione del messaggio del presidente Leone (1975) e del pronunciamento in favore di una “grande riforma” (1978) del segretario socialista Craxi, non si può certo dire che negli ultimi vent’anni i Parlamenti siano stati inerti o improduttivi di riforme costituzionali. In pratica, dagli esordi del 2000 a oggi, non vi è stata legislatura che non abbia partorito il suo disegno di legge che modificava in modo significativo il testo approvato dall’Assemblea costituente nel 1948.

 

Tanto fervore innovativo non ha, tuttavia, prodotto l’effetto di far percepire ai cittadini un reale cambiamento capace di sciogliere il nodo irrisolto di dare efficienza al governo e preservare un adeguato livello di rappresentatività delle istituzioni. Tutt’altro, tant’è che ciò trova riscontro da un lato nel diffuso scetticismo verso l’“ingegneria costituzionale” e – dall’altro – nell’aumento sempre crescente delle percentuali di astensione alle elezioni.

 

Se valutiamo le riforme approvate dai parlamentari, è facile evidenziare come su tutte cali un giudizio per lo più contraddistinto da perplessità e rilievi fortemente critici, avvalorati per di più dalla prova dei fatti nel caso delle due modifiche entrate in vigore dopo l’esito favorevole del referendum confermativo, vale a dire la riforma del Titolo V sulla devoluzione delle prerogative statali alle regioni e la riduzione da 945 a 600 dei rappresentanti eletti nelle assemblee. 

 

Sia nel primo che nel secondo caso, non è passato molto tempo per rendersi conto delle controversie e dei problemi che hanno provocato: i conflitti di responsabilità fra amministrazioni locali e centrali così come l’ulteriore indebolimento del ruolo del Parlamento, di fatto sabotato sia nelle sue funzioni di controllo che nel grado di rappresentanza di ampie aree territoriali, stanno lì a dimostrarlo.

 

Per quanto riguarda le due riforme respinte dal corpo elettorale – quella del Centrodestra del 2006 e quella del PD a guida Renzi del 2016 – fin dalla loro gestazione in aula presentavano numerosi aspetti controversi, risultando alla fine tanto poco convincenti da non raccogliere il consenso maggioritario dei votanti.

 

A ben vedere, il tratto comune di questi interventi legislativi è che miravano fuori bersaglio. Il centro del problema istituzionale in Italia si compone di due parti: la mancata (voluta e, per questo, colpevole) chiarezza sulla natura stessa della nostra Repubblica, con il portato di un’asimmetria ai vertici dello Stato con i due presidenti del Quirinale e di Palazzo Chigi, in cui il primo – pur privo di investitura diretta – condiziona l’azione del secondo, e la ridotta legittimazione di un edificio normativo calato in modo verticistico senza un’adeguata partecipazione dei cittadini alla sua costruzione.

 

Aver insistito sulla devoluzione o sul bicameralismo ha significato soltanto concentrarsi su aspetti secondari, assolutamente non determinanti ai fini di un superamento delle effettive mancanze di un testo costituzionale i cui guasti erano rinvenibili altrove. Per non parlare dell’assoluta inconsistenza riformatrice della riduzione dei parlamentari del 2020, sciaguratamente sostenuta dal sistema mediatico-informativo attivato da oligarchie autoreferenziali ben contente di limitare il ruolo del Parlamento per poter operare senza ostacoli.

 

Il progetto di riforma in discussione sul cosiddetto “premierato” rischia di ripetere gli stessi passi falsi delle riforme passate, mancando di affrontare il nodo essenziale laddove paradossalmente il suo riformismo è di natura “aggiuntiva” piuttosto che “sostitutiva” mantenendo così inalterato l’ibridismo equivoco del nostro ordinamento.

 

(disegno da Quotidiano dei Contribuenti)

 

 


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