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23/12/24 ore

Guantanamo, la tortura e noi



di Adriano Sofri

(su Il Foglio del 3 maggio 2013)

 

In calce alla lettera del detenuto yemenita a Guantánamo pubblicata lo scorso 14 aprile dal New York Times si legge qualche centinaio di commenti. Uno dice: “Io concordo col senatore McCain, che fu lui stesso vittima di tortura. Quando un altro senatore gli disse: ‘Perché dovremmo preoccuparci di questi terroristi?’, McCain replicò: ‘Non si tratta di chi sono loro, ma di chi siamo NOI. Noi siamo gli Stati Uniti d’America, e gli Stati Uniti d’America non torturano la gente”.

 

Nella lettera, Samir Naji al Hasan Moqbel, 35 anni, descrive minutamente il tormento dell’alimentazione forzata attraverso il sondino nasogastrico. (Ne ha scritto qui Daniele Raineri lo scorso 17 aprile).

 

“Sono detenuto a Guantánamo da 11 anni, non ho ricevuto alcuna imputazione, non ho avuto alcun processo… Sostennero che fossi una “guardia” di Osama bin Laden, una cosa insensata, mi sembrava uscita dai film americani che mi piaceva guardare. Nemmeno loro sembrano crederci più… Non dimenticherò mai la prima volta che mi hanno infilato il tubo nel naso. Mi legano alla sedia nella mia cella due volte al giorno. Non so mai quando arriveranno, a volte vengono durante la notte…

 

Il 15 marzo ero malato nell’ospedale della prigione e mi sono rifiutato di mangiare. Una squadra della Extreme Reaction Force /poi ribattezzata eufemisticamente Forcible Cell Extraction: estrazione energica…/ ha fatto irruzione. Mi hanno legato mani e piedi al letto e inserito a forza una flebo nella mano. Ho passato 26 ore in questo stato, legato al letto. Non sono potuto neanche andare in bagno. Mi hanno messo un catetere, un’azione dolorosa, degradante e non necessaria. Non mi è stato permesso neanche di pregare…

Durante una nutrizione forzata l’infermiera ha spinto sbrigativamente il tubo in profondità dentro il mio stomaco. Ho pregato di sospendere, si è rifiutata. Stavano finendo, quando un po’ di quel ‘cibo’ si rovesciò sul mio abito. Chiesi di cambiarlo, ma la guardia mi negò questo estremo appiglio di dignità”.

 

La cosa di cui si sta parlando è la nutrizione forzata. (Quella, mutatis mutandis, cui una legge di Stato avrebbe voluto assoggettare anche tutti i cittadini liberi del nostro paese).

 

Avrete letto i racconti sui viaggi nei vagoni piombati, sull’umiliazione terribile dei bisogni corporali. Parlai con molti vecchi ceceni che avevano subito la deportazione staliniana in Kazakistan o in Siberia. Non sono cose che si possano dire, rispondevano. Abbassavano la testa e sussurravano che molte persone si facevano morire sui treni per la vergogna.

 

Dice una mia amica: “Ho letto che il New York Times ha pagato l'articolo al detenuto yemenita (la tariffa standard: 150 dollari) e che quei soldi saranno spediti alla sua famiglia nello Yemen. Confesso che ho pensato, sentendomi poi molto in colpa: chissà cosa ne sarà di quei soldi, ci compreranno il cibo per i bimbi o ci costruiranno una bomba come quella che é scoppiata a Boston, che costa 100 dollari?”

 

Già. Il dilemma breve della mia amica serve a ricordarsi, oltre che dei principii, della differenza fra prevenzione e repressione. Coi detenuti senza imputazioni di Guantánamo, supposti pericolosi e resi pericolosi, la differenza è bruciata. La repressione vuol essere preventiva. Ma il cibo per i bimbi non è, a chi pensi così, una vera alternativa: nutrite i bambini a Gaza o in Libano o in Pakistan, e forse qualcuno di loro, senza nemmeno aspettare d’esser cresciuto abbastanza, si metterà addosso una cintura esplosiva e si farà scoppiare in mezzo a una folla di “nemici”.

 

Ma non possiamo affamare preventivamente mezzo mondo –e più. E’ già affamato abbastanza di suo. Non possiamo affamarne nemmeno uno solo, abbastanza da rimandarlo al Creatore. Intanto, però, ricordiamoci del mondo in cui viviamo ordinariamente, del nostro angolo di pianeta.

 

Nel cantone di Zurigo, il 16 aprile, un carcerato comune, cittadino svizzero di 32 anni, condannato nel 2009 per tentato omicidio, è morto nell’ospedale in cui era stato trasferito dopo uno sciopero della fame iniziato nello scorso gennaio. Aveva rifiutato ogni intervento medico, e la sua volontà è stata riconosciuta legittima e rispettata.

 

Il 30 aprile, negli Stati Uniti, mentre il presidente Obama tornava a dichiarare il proprio desiderio di chiudere Guantánamo, il presidente dell’American Medical Association protestava contro la nutrizione forzata: “Ogni paziente ha diritto di rifiutarla anche se ne dipenda la sua vita”...

 

- prosegui la lettura integrale sul profilo facebook di Adriano Sofri


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