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18/11/24 ore

Bonino, "L'Europa federale? Ora o mai più"



di Paolo Valentino

(dal corriere.it)

 

«Prendo molto sul serio l’apertura di François Hollande. Quali che siano le ragioni che l’hanno ispirata, per la prima volta Parigi segnala la disponibilità a una rivisitazione dell’Europa che mi fa molto piacere, perché fino a poco tempo fa era tabù anche solo parlare di modifiche ai Trattati. È ovvio che le cose ipotizzate dal presidente francese presuppongano per lo meno una revisione dei patti esistenti. Ma se si ammette il bisogno di una riconsiderazione complessiva delle istituzioni e delle politiche, allora si apre lo spazio per discutere se vogliamo un’Europa intergovernativa, come temo Hollande abbia ancora in testa, oppure se ne vogliamo una federale».

 

Anche da ministro degli Esteri, Emma Bonino non dissimula il suo codice genetico «radicale, spinelliano e federalista», riproponendo quella posizione ostinatamente tenuta per tanti anni in minoranza, insieme a un minuscolo drappello di visionari dell’Europa.

«È una posizione storicamente mia - dice nella prima intervista concessa dal suo insediamento alla Farnesina - ma è anche quella dell’Italia, visto che di Stati Uniti d’Europa ha parlato il presidente Enrico Letta al momento della fiducia».

 

Giuliano Amato dice affettuosamente che lei è «sempre troppo avanti coi tempi». Il rilancio dell’Europa federale è stato il tema conduttore del suo esordio alla guida della diplomazia. In Parlamento e poi all’Università europea, lei ha parlato della necessità di «un nuovo spartito», indicando il federalismo come uno dei temi centrali della prossima presidenza italiana della Ue nella seconda metà del 2014. Non rischia di essere una fuga in avanti?

 

«No, se si riconosce che l’Europa sia in una situazione insostenibile. Prendiamo l’esempio dell’Unione bancaria, decisa più di un anno fa. Ancora non ci siamo, perché la governance non funziona e quindi non possono funzionarne le politiche. Il tempo non è elemento marginale: una cosa che va bene ora, non funzionerà tra 5 anni quando il mondo sarà andato da un’altra parte. La tesi secondo cui austerità e tagli da soli avrebbero portato alla crescita, a trattati vigenti viene smentita da tutte le parti. Avere i conti a posto è importante e in Italia lo abbiamo fatto, anche grazie al governo Monti. Ma i costi economici sono alti (per tutti, compresa prossimamente la Germania) e a questi si aggiungono quelli politici, perché assistiamo allo sviluppo di populismi ed euroscetticismi che assumono dimensioni preoccupanti, trasformandosi poi in nazionalismo e razzismo, da cui la nostra Storia ci mette in guardia».

 

Ma perché l’opzione intergovernativa non funzionerebbe?

 

«Perché a forza di andare avanti sulla strada dell’Europa delle patrie, si distruggono pure le patrie. Non riesci neppure a governare una crisi relativamente piccola come quella di Cipro. Sono federalista per convinzione e non conosco altro sistema istituzionale al mondo in grado di tenere insieme in democrazia, Stato di diritto e diversità 500 milioni di persone di lingue e storie diverse. E non è una cosa esotica, lo abbiamo vicino, in Germania, dove funziona. Non è pensabile cedere ulteriori competenze senza una accountability democratica, senza che il presidente sia eletto, senza che il Parlamento europeo, magari integrato da quelli nazionali, possa votare la sfiducia. Non esiste una capacità di bilancio e imposizione fiscale senza risvolto del controllo democratico, che fra l’altro non è limitato solo all’aspetto economico».

 

Cosa vuol dire?

 

«Che esiste nell’Europa attuale anche uno spread di diritti civili. Per esempio sul tema delle carceri e della giustizia in Italia, o della democrazia costituzionale in Ungheria. Non esistono cioè strumenti seri di correzione. Abbiamo criteri economici forti per entrare nella Ue, meccanismi di monitoraggio efficaci: procedure d’infrazione, multe, eccetera. Mentre sulla parte democratica ci sono criteri forti per l’ingresso, ma una volta dentro un Paese può cambiare la Costituzione eliminando la divisione dei poteri senza che accada nulla come è il caso a Budapest. Oppure si può essere come l’Italia, dove pare che il diritto alla difesa non esista più, perché un processo che dura 10 anni non è più tale».

 

Dove ha sbandato il progetto d’integrazione?

 

«Si è fossilizzato sulla moneta unica. Ci siamo fermati, aiutati dal fatto che l’euro, checché se ne dica, è stato un successo strepitoso, perfino in questo sistema imperfetto, al punto che ci si è dimenticati di andare avanti con le altre parti finché siamo sprofondati nella crisi. La moneta unica aveva una governance da bel tempo, con la tempesta non ha retto più».

 

Si è perso però anche il principio di solidarietà, la ragione per cui si è insieme...

 

«In realtà non abbiamo mai dovuto praticarlo sul serio, perché non siamo mai stati messi veramente alla prova: bastavano i fondi di coesione e le altre voci del bilancio. Questa è la prima grande crisi e l’incapacità di dare risposte fa passare il rifiuto della solidarietà dai governi ai cittadini. Popper ci ha insegnato che in crisi ognuno si rivolge all’autorità più vicina per trovare una soluzione. Per tre anni abbiamo preso misure appena sufficienti a non esplodere: troppo poco e troppo tardi. La verità è che solo un grande progetto di rilancio a tutti i livelli può appassionare qualcuno. Non credo sia più possibile rimettere insieme l’Europa con i piccoli passi. La bizzarria fantastica è che l’Europa continui a essere un magnete di attrazione per tutti i popoli non europei».

 

Qual è oggi l’argomento forte del bisogno d’Europa?

 

«Nessuno di noi da solo ha le risorse o l’economia di scala per riuscire a garantirsi un futuro per le proprie generazioni. La visione opposta è quella autarchica e nazionalista, la tentazione di chiudere tutto che poi diventa razzista e fomentatrice di guerre. Insieme siamo più forti sul piano economico e democratico».

 

Il ministro delle Finanze tedesco Schäuble dice che bisogna modificare i trattati anche solo per l’Unione bancaria. È d’accordo?

 

«Secondo me non vale la pena. Non è vero che le piccole riforme siano più digeribili da un certo tipo di Paesi. Comunque molti di loro sono obbligati a sottoporle a referendum. E la gente non si rinnamorerà dell’Europa se gli dici che facciamo l’Unione bancaria. Già era difficile innamorarsi di una moneta. Ci sono però cose che toccano molto di più l’immaginario popolare. Non mi stanco per esempio di chiedere cosa ce ne facciamo di 27 eserciti nazionali. Sono 250 miliardi di euro. Abbiamo 2 milioni di persone sotto le armi, nude, cioè non equipaggiate. Tant’è vero che ogni operazione di peacekeeping diventa un dramma: equipaggiamenti, standard diversi, sistemi d’arma diversi, in Libia dopo dieci giorni eravamo senza munizioni. Oppure le infrastrutture, la ricerca».

 

È la sua idea della Federazione leggera?

 

«Sì, con un bilancio di appena il 5% del Pil europeo: mettere in comune 4 o 5 settori, nulla a che vedere col Superstato. Il resto lo lasciamo alla sussidiarietà. Non dobbiamo diventare assolutamente omogenei. A differenza della mia amica Ulrike Guérot, secondo cui l’Europa non si fa perché non ci si mette d’accordo se è meglio pasteggiare a vino o a birra, penso che la nostra ricchezza siano proprio la birra e il vino di ognuno dei nostri Paesi. Insieme dobbiamo fare solo le cose che contano: esteri, difesa, sicurezza, fiscalità, tesoro, ricerca, infrastrutture e ci metto anche l’immigrazione. Le cifre più prudenti dicono che l’Europa avrà bisogno di 50 milioni di immigrati entro il 2050»...

 

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