di Stefano Silvestri
(da Affari Internazionali)
È possibile che l’Italia aumenti il suo impegno militare in Iraq nelle operazioni contro il cosiddetto califfato. È molto probabile che la Nato richieda un prolungamento della presenza militare in Afghanistan.
Le operazioni navali nel Golfo della Sirte si fanno più stringenti ed è possibile che un eventuale, difficilissimo accordo tra le varie fazioni libiche debba essere accompagnato da una presenza militare internazionale che potrebbe estendersi all’Italia.
Continuano altri impegni come la lotta alla pirateria nell’Oceano indiano e nel Mar Rosso, e la missione Unifil in Libano. In questi anni l’Italia era andata progressivamente riducendo il suo impegno militare oltremare, passando da un impiego complessivo di circa 10mila uomini ad uno di circa 4mila, ma il pendolo sembra nuovamente oscillare nella direzione opposta.
Riaffermare il ruolo e le posizioni italiane
Questa volta però l’impegno è politicamente molto più complesso. In passato si trattava essenzialmente di consolidare il ruolo e il rango dell’Italia negli equilibri internazionale come paese membro del G8 e del “primo cerchio” dell’Alleanza Atlantica e dell’Unione europea.
Il contributo militare italiano alla gestione delle crisi e alla lotta al terrorismo era compreso in un ben consolidato discorso strategico globale. Oggi la situazione è per molti versi differente.
Rimane naturalmente l’obiettivo di riaffermare il ruolo italiano, fragilizzato dalla crisi economica e dagli sbandamenti nazionalistici di alcuni importanti alleati (nonché dalla posizione più defilata assunta dagli Stati Uniti), ma si delinea anche l’esigenza di dare maggiore credibilità ed udienza a posizioni italiane non sempre perfettamente in linea con quelle assunte dagli alleati.
Il vero e proprio movimento migratorio verso l’Europa scatenato dalla povertà e dai conflitti in corso in Africa e in Asia ha visto l’Italia investita in pieno, assieme ad altri paesi “fragili” dell’Europa, a cominciare dalla Grecia.
La ricerca della solidarietà europea è stata lunga e difficile e, anche se ora sembrano aprirsi consistenti spiragli, grazie al cambiamento di posizione del governo tedesco, si delinea l’esigenza di intervenire in modo più efficace nei paesi d’origine dei profughi e nei confronti dei criminali che speculano su queste tragedie: tutte cose che richiedono una strategia comune ancora ben lungi dall’essere delineata.
A questo si somma la crisi libica, resa più difficile dalle “sponsorizzazioni” esterne delle diverse fazioni in lotta nel paese.
È essenziale chiudere questo conflitto per evitare che esso si espanda al resto dell’Africa settentrionale (come è già accaduto in Mali), ma anche questo obiettivo richiede una linea comune europea.
Il governo italiano sembra finora aver puntato da un lato sulla mediazione delle Nazioni Unite e dall’altro sui buoni rapporti stabiliti con l’Egitto (e con Israele) e aver mantenuto aperto un dialogo con la Turchia. Essenziale però trovare un accordo in sede europea…
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