di Pierluigi Battista
(dal 'Corriere della Sera')
Va bene, pagheremo quell’odioso balzello denominato «canone Rai» con la bolletta dell’elettricità. Ciò non toglie che saremo costretti a pagare una tassa iniqua e ingiustificata. Perché è un residuo di un’epoca finita, quella in cui non esisteva il telecomando, lo smartphone, il tablet, e non esisteva nemmeno il computer. Di un’epoca in cui possedere un apparecchio televisivo era un privilegio e la gente andava a vedere «Lascia o raddoppia» con Mike Bongiorno al bar. Un’epoca in cui esisteva il monopolio della tv e della radio di Stato, con un solo telegiornale e un solo radiogiornale, più o meno nel Medioevo.
Perché l’obbligo fiscale di un canone va contro il principio della libertà di scelta: pago il biglietto del cinema o di un concerto, se lo scelgo io; pago il prezzo di un giornale se lo scelgo io; pago una tv tematica non di Stato se la scelgo io; sono invece costretto a pagare la tassa per la Rai anche se non vedo programmi Rai, o li vedo in misura inferiore a quelli di altre emittenti televisive che non possono usufruire dei proventi di una tassa obbligatoria.
Il canone introduce un principio di concorrenza sleale, come se in una gara di corsa un concorrente privilegiato, perché si chiama Stato, potesse cominciare con trenta metri di vantaggio. Dicono che un canone televisivo è misura comune all’Europa. Non è vero, solo in due terzi, l’Italia potrebbe raggiungere il terzo virtuoso. Inoltre quasi sempre le tv pubbliche che usufruiscono di una tassa pongono dei limiti molto stretti alla pubblicità, e la Bbc addirittura la vieta.
La permanenza indiscussa di un canone impedisce, tranne casi rari come quello del nostro Aldo Grasso, di interrogarsi su cosa sia «servizio pubblico»...
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