di Filomena Gallo
«Sono talassemica, una malattia genetica che costringe a trasfusioni di sangue mensili. A Cagliari, dove vivo, non è possibile fare diagnosi preimpianto, per me che sono malata, e ho un marito portatore sano: i laboratori non vengono attivati. Se avessi un bimbo, il rischio di trasmettergli la talassemia sarebbe del 50 per cento». Così mi aveva scritto Claudia Frau, di Cagliari, nel 2011. Mi aveva cercato dopo aver letto che l’Associazione Luca Coscioni aveva ottenuto che alcuni Tribunali aiutassero le coppie a superare i divieti della Legge 40 sulla fecondazione assistita.
Non si tratta di un caso isolato. L’ultima vicenda, in ordine di tempo, in Lombardia: la clinica milanese Mangiagalli e la Regione sono state condannate dal Tribunale di Milano, qualche giorno fa, per il rifiuto a eseguire una diagnosi preimpianto a una coppia in cui l’uomo era affetto da esostosi multipla ereditaria, trasmissibile al feto. Per intenderci: la diagnosi preimpianto è la forma più precoce di diagnosi prenatale, identifica anomalie del patrimonio genetico negli embrioni prodotti in vitro.
Oggi Claudia e Maurizio hanno due gemelli. Sani. Ma non è stato semplice. Nel 2012 ci siamo rivolti al Tribunale di Cagliari per denunciare che l’Ospedale Microcitemico della città: aveva laboratori attrezzati per diagnosi preimpianto, ma dal 2004 non aveva più personale idoneo. Tempo qualche mese, il giudice Giorgio Latti ha affermato, con un’ordinanza, il diritto di effettuare l’esame. Infatti è la stessa Legge 40 a prevedere che la coppia possa chiedere di conoscere lo stato di salute dell’embrione. Era la prima volta che una decisione giudiziaria entrava nel merito della questione, imponendo all’azienda sanitaria locale di fare la diagnosi preimpianto...
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