di Paolo Macry (da Il Mattino)
Il gioco politico corre veloce e confuso, nella Terza Repubblica. Con il rischio che l'opinione pubblica venga investita da una gragnuola di retroscena e previsioni che assomigliano piuttosto a malcelati desideri. Venerdì sera, dopo lo «scherzetto» di Salvini, s'è detto e giurato che il centrodestra era morto, che l'alleanza M5S-Lega era cosa fatta, che un governo Di Maio-Salvini diventava pressoché inevitabile.
Ma quello che è successo subito dopo, tra venerdì notte e sabato mattina, sembra suggerire grande prudenza. E forse ha deluso qualche opinion leader troppo zelante. La verità è che il complicato parto delle presidenze di Camera e Senato conferma quanto già si sapeva. E cioè che il 4 marzo ci sono stati due mezzi vincitori e non due vincitori. Che anche ieri, infatti, Di Maio e Salvini hanno guidato le danze solo parzialmente. E che di conseguenza Berlusconi e il Pd, ovvero gli sconfitti, possono giocare un ruolo tutt’altro che ininfluente nella partita politica che si aprirà con le consultazioni.
Perché, alla fine dei conti, dopo aver messo il veto su Paolo Romani, i pentastellati hanno dovuto votare (con encomiabile compattezza) una personalità di Forza Italia. E non una forzista qualunque, ma Maria Elisabetta Alberti Castellati, ultrà berlusconiana della quale i primi commenti non rinunciano a ricordare la difesa militante delle «leggi ad personam», le marce di protesta contro le «toghe rosse» davanti alla Procura di Milano, le baruffe violente con Marco Travaglio, l’assunzione della figlia nel suo ministero.
Non proprio una medaglia da appuntarsi al petto per quel Di Maio che un paio di giorni fa aveva sdegnosamente rifiutato di sedersi allo stesso tavolo con il «pregiudicato» Berlusconi. Del resto, se la strategia grillina tendeva a lacerare il centrodestra, è un fatto che il centrodestra, sia pure dopo le parole di fuoco contro Salvini, ha mantenuto il proprio assetto coalizionale. Anche perché, come suo solito, il Cavaliere ha saputo farsi concavo e, dopo aver cercato di assestare un colpo ai grillini (con la proposta Romani), poi ha parato il colpo degli avversari acconsentendo all’ipotesi della Castellati. Della «pasionaria» Castellati, come scrivono i giornali.
Quanto a Salvini, bisogna capire quanto potrà giovargli l’aver voluto scoprire le carte del suo feeling con i Cinque Stelle, venerdì sera. La minaccia di andare da solo continua a sembrare un’arma spuntata. Il mezzo vincitore, se realmente rompesse con la sua coalizione, diventerebbe il leader del terzo partito del Paese. Nel frattempo, quel che di concreto è successo è che la Lega ha clamorosamente maltrattato l’alleato-competitore di Arcore, ma poi ha dovuto concedergli la seconda carica dello Stato.
E ha finito per applaudire una Castellati che, nel discorso dell’investitura, non ha perso occasione per ricordare il forte radicamento del Paese all’Europa e i suoi impegni internazionali, né ha rinunciato a citare il proprio mentore.
Nessuno nega, naturalmente, che sarebbe nell’interesse della Lega e del M5S mettere in piedi un esecutivo che avesse come scopo una nuova legge elettorale e il rapido ritorno alle urne. Sebbene Salvini e (più ancora) Di Maio dovrebbero pur chiedersi quanta parte dei rispettivi «zoccoli duri» si ribellerebbe a un’alleanza spericolata tra assistenzialisti e liberisti, fautori del reddito garantito o della flat tax, «sudisti» e «nordisti». Ma il punto vero è che i due leader dovrebbero avere il conforto di Sergio Mattarella.
Il che, al momento, appare improbabile. Lega e M5S non hanno i numeri per offrire al Presidente una credibile maggioranza parlamentare. Né hanno argomenti per spingerlo su una strada che porterebbe alla fine precoce della legislatura. Tutto sembra suggerire che il nuovo bipolarismo deve aspettare tempi migliori. Che cioè in questo parlamento un «compromesso storico» è difficile. E tanto più un «compromesso storico» fatto alle spalle degli altri partiti maggiori, Pd e FI. Gli sconfitti del 4 marzo infatti restano l’ago della bilancia. Berlusconi ha il potere di bloccare l’ascesa irresistibile di Salvini, perché senza coalizione il re è nudo.
E i democrat hanno a loro volta il potere di bloccare l’ascesa irresistibile di Di Maio. Il quale, non potendo concludere a cuor leggero un patto politico con i lepenisti italiani, offrirà forse al Pd qualche ipotesi di accordo (per l’intanto ha mandato alla presidenza della Camera un grillino di sinistra). Ma bisognerà vedere cosa risponderanno i democrat alle avance. Un punto sul quale sono divisi e potrebbero perfino scindersi. Il che sarebbe una iattura per loro, ovviamente, ma non risolverebbe i problemi di maggioranza di Di Maio.
Torna cioè la maledizione del 4 marzo. Ci sono troppi mezzi vincitori per affidare a qualcuno le redini del Paese. Ci sono troppi perdenti di lusso in grado di bloccare gli «inciuci». E per quanto Mattarella non abbia alcuna voglia di seguire le orme interventiste del suo predecessore, tutto fa pensare che alla fine sarà il Colle a dover inventare una formula che sblocchi l’impasse. (*)
(*) da Il Mattino