Informativa

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.

23/12/24 ore

Ernesto Galli della Loggia: 'Le gambe del Pd'



di Ernesto Galli della Loggia 

(da Corriere della Sera)

 

Il difficile cammino verso le elezioni lungo il quale oggi si avvia il Pd con la variopinta compagnia di Di Maio, dei Verdi e di Fratoianni, inizia molto tempo fa: quando i magistrati di «Mani pulite» decisero senza saperlo le sue sorti per i decenni successivi. Quando, decretando l’immunità penale del vecchio Partito comunista — un’immunità che aveva tutta l’aria dell’impunità —, stabilirono di fatto che il vecchio Pci era stato un partito speciale.

 

In pratica, l’unico custode delle pubbliche virtù: una qualità che per diritto successorio si estese facilmente a tutte le sue reincarnazioni seguenti: Pds, Ds e infine il Pd.

 

Nella seconda Repubblica il Pd si è così ritrovato promosso di fatto al nobile ruolo di partito serio e onesto «a prescindere», di garante per vocazione delle istituzioni, si direbbe un vero e proprio partito dello Stato in servizio permanente effettivo sul quale, ad esempio, il Quirinale poteva, e ha potuto, sempre contare. Sicuramente un ruolo non privo di vantaggi (ad esempio nel favorire l’accesso dei suoi iscritti e simpatizzanti a centinaia di incarichi di rilievo pubblico), ma con un’inevitabile conseguenza negativa.

 

Vale a dire che diventava ogni giorno più difficile che un tale partito potesse essere un vero partito di sinistra, anzi il partito della sinistra, i Carabinieri, come è noto, non essendo certo i più adatti a fare la rivoluzione. L’idea insomma che un partito delle istituzioni e dello Stato, del Csm, della Banca d’Italia e dei grand commis quale il Pd rapidamente divenne potesse essere al tempo stesso anche il partito del conflitto e del riformismo sociale, dei sindacati e della lotta al privilegio, si è rivelata un’illusione, oggi lo si vede con chiarezza.

 

Così come un’illusione si è rivelata l’idea, propria dell’eredità togliattiana, che a tenere insieme tutto e il contrario di tutto bastasse come in passato il continuo richiamo alla «Costituzione antifascista», ambigua depositaria anch’essa di tutto e del contrario di tutto.

 

Negli anni ’90 e sempre più in seguito il Pd si attaccò tuttavia a una tale illusione. Dopo essere stato costretto dalla storia a spogliarsi della sua antica anima comunista esso aveva un solo modo di essere un partito di sinistra: diventare un partito socialdemocratico a tutti gli effetti. Tuttavia, vuoi perché ossessionato dal mito della propria congenita «diversità», vuoi per un effetto duro a morire dell’antico odio leninista, vuoi forse per non dover ammettere di essere il frutto di un abbaglio storico di portata catastrofica, evitò accuratamente quella scelta.

 

Si convinse invece che per restare un partito, anzi il partito, della sinistra bastassero tre ingredienti: rappresentare una scialuppa di salvataggio per tutti i naufraghi del centro sinistra della prima Repubblica, in primis per i cosiddetti «cattolici democratici», avere un nemico a destra da delegittimare in perpetuo come «minaccia fascista» e infine non avere nemici a sinistra. Proprio questo doveva rivelarsi però il suo maggiore punto debole.

 

Anche il vecchio partito comunista aveva sempre avuto di mira il medesimo obiettivo, ma per raggiungerlo era solito adoperare un solo strumento: la guerra di sterminio. Contro qualunque cosa comparisse alla propria sinistra qualsiasi mezzo era buono: scomuniche, calunnie, criminalizzazione, minacce. Fare terra bruciata, insomma.

 

Anche un partito socialdemocratico non si sarebbe comportato diversamente, per la verità, sebbene in modi diversi: avrebbe adoperato le armi dello scontro politico più aspro ma le avrebbe adoperate tutte. Il Pd invece prese da subito un’altra strada: contrastare, sì, le posizioni estreme alla propria sinistra, differenziarsene, ma quando è il caso — in pratica sempre — accoglierle al governo e al momento delle elezioni cercarne di fatto l’alleanza se non addirittura farci una bella lista insieme.

 

È esattamente quanto sta accadendo oggi. Ma con l’ovvio risultato di rendere difficile se non impossibile qualunque alleanza del Pd verso il centro. Si può ricorrere infatti a tutte le acrobazie verbali immaginabili, a tutti gli arzigogoli pattizi di questo mondo, ma tenere insieme chi vota contro il rafforzamento della Nato e chi si riconosce in una prospettiva occidentalista è indubbiamente piuttosto difficile. È proprio per nascondere simili contraddizioni che allora bisogna ricorrere ogni volta al Fronte Popolare: sperando che ci sia qualcuno che scambi Giorgia Meloni per Adolf Hitler.

 

La spiegazione di questa eterna subalternità del Pd nei confronti dell’estremismo di sinistra e del movimentismo e del suo conseguente, eterno, bisogno di alleati da infilare in un bel gruppone di sigle al momento delle elezioni sta in quanto ho detto sopra. Risucchiato dal vortice del perbenismo istituzionale, snaturato dal democraticismo dilagante dei «nuovi diritti», paralizzato dal timore di resuscitare il proprio passato, il Pd nel suo intimo non si considera più un partito di sinistra, di essere la sinistra.

 

Invece di parlare orgogliosamente a suo nome, e di combattere a viso aperto le proprie battaglie in nome di questa identità — che così accredita implicitamente ad altri — si accontenta di essere «democratico». Ma neppure troppo, e non sapendo neppure bene che cosa significhi visto che poi sente sempre il bisogno di una «gamba di centro»: insomma un pasticcio.

 

Quel pasticcio che abbiamo sotto gli occhi in questi giorni.

  

da Corriere della Sera

 


Aggiungi commento