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26/12/24 ore

Turchia, un copione stracciato



 Il sogno di una Turchia finalmente pacificata, quel sogno che aveva permesso a Recep Tayyip Erdoğan di accreditarsi presso le cancellerie europee a dispetto di un pedigree politico non esattamente impeccabile, è infranto. A pagarne il conto saranno,comunque vada a finire, quelli della cricca del primo ministro; se per dieci anni hanno potuto condurre i loro affari senza incontrare alcuna resistenza, ora si trovano a fare i conti con quello che in Turchia è un nuovo soggetto politico: il cittadino.

 

Puntare il dito sullo sdoganamento del velo, sulla censura di Internet, sulla sistematica incarcerazione di giornalisti, sull’attacco al consumo e ai consumatori di alcol è facile, troppo facile; ma non dà conto della progressione – regressione – inaugurata il 14 marzo 2003: è da quel giorno infatti che Erdoğan regna incontrastato sulla Turchia e sul suo destino politico ed economico. Non dà conto di tutta la storia, perché tralascia il miracolo – parola abusata, lo so – politico di Erdoğan: riuscire a scardinare i due baluardi dell’opposizione al potere civile e religioso.

 

Già da un lato l’esercito ammutolito a suon d’incarcerazioni e la magistratura sempre meno indipendente, e dall’altro un islam sempre più sottomesso ai suoi desideri di nuovo califfo. Se a innescare la rivolta è stato Gezi Park, piccolo fazzoletto verde in una Taksim ormai irriconoscibile, le motivazioni sono più profonde, e quanto avviene in questi giorni non racconta soltanto la difesa di uno spazio pubblico fisico, ma la genesi della cittadinanza turca, l’affrancamento di una grande parte della popolazione da quel sistema per cui, a tirare il paese fuori dai guai, avrebbe dovuto essere, secondo copione, ancora l’uomo forte di turno.

 

La strada tracciata da Erdoğan, costellata di centri commerciali e pace sociale, la strada verso un paese finalmente riunito grazie al potente effetto calmante di una crescita economica a ritmo sostenuto, questa strada si è trasformata improvvisamente in un vicolo cieco. A chiuderla, un numero impressionante di persone, anzi, di cittadini: quello che non vi hanno mostrato in questi giorni è quanto sta avvenendo nell’altra Istanbul, lì dove il governo non ha voluto o non ha potuto impiegare massicciamente gli agenti in tenuta anti-sommossa.

 

Bakırköy, Kadıköy, Suadiye, Caddebostan, Erenköy, quartieri periferici rispetto al centro storico e insanguinato di Istanbul, raccontano una storia diversa. Raccontano di nonni e nipoti abbracciati nelle strade a cantare vecchie canzonid’indipendenza, a sventolare bandiere turche e a chiedere che Erdoğan si faccia finalmente da parte. Si tratta di realtà economicamente ricche, antropologicamente borghesi, che al contrario dei proletari di Marx hanno tutto da perdere, tanto le catene quanto la ricchezza.

 

Si tratta di persone che dopo dieci anni di miracolo economico hanno deciso che non ne vale la pena, che dopotutto il fatturato dell’industria locale non sarà l’unica misura della felicità per loro e per i loro figli. Si tira fino a tardi, a Istanbul, nella speranza che Erdoğan, partito per il Nord Africa, ci rimanga.

 

Qui da domani, si dimetta o meno, la carta di identità turca non sarà più uno strumento degli uffici del censo, ma il documento che permetterà a tutti di dire la loro, di dire no a un uomo che non ci sente da entrambe le orecchie. Quello che non sono riusciti a fare i militari, questa volta riusciranno a farlo i neonati cittadini. Che, come alberi, con i loro rami gridano al cielo il loro desiderio di esistere.

 

Gianluca Grossi

@ostvest


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