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17/11/24 ore

Craxi. Una vita, un’era politica


  • Luigi O. Rintallo

Il film di Gianni Amelio Hammamet, in cui il regista descrive gli ultimi sei mesi della vita di Bettino Craxi, nonostante il carattere intimistico del racconto, incentrato sugli aspetti umani della sua vicenda, ha riproposto la figura del leader socialista, suscitando una sia pur breve attenzione sulla sua personalità e sul suo ruolo in quella che è poi una lunga stagione della politica italiana. È una occasione che ci permette di fornire un nostro contributo che cercheremo di sviluppare attraverso vari interventi su questa agenzia, considerando come alcuni dibattiti televisivi hanno rappresentato, con personaggi poco attendibili, una pervicace faziosa interpretazione della sua figura e della sua storia.

 

Di seguito la introduzione di Luigi O. Rintallo a una conversazione che Giuseppe Rippa ebbe con Massimo Pini sul suo libro-biografia su Craxi pubblicata su Quaderni Radicali n.99 del novembre/dicembre 2006. Questa conversazione verrà pubblicata nei prossimi giorni, come detto con altri interventi sul tema. Nella rubrica cinema vi è poi una prima recensione al film

 

 

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Vita da leader

La biografia di Craxi scritta da Massimo Pini

 

di Luigi O. Rintallo 

 

Il volume Craxi. Una vita, un’era politica (Mondadori), documentata biografia del leader socialista scritta da Massimo Pini, è corredato da alcune fotografie non ufficiali e per lo più inedite. Ve n’è una che ritrae Bettino Craxi in calzoni corti, mentre è in fila ad un forno di Hammamet assieme ai tanti tunisini che aspettano il loro turno per comprare il pane. Il politico descritto come la pura e semplice allegoria dell’arroganza in coda per il pane: basterebbe forse questa immagine per dubitare della veridicità di tante rappresentazioni malevole, che hanno contribuito non poco a deformare la sua persona e la sua azione.

 

Come ripetuto da Massimo Pini nella conversazione col direttore di «Quaderni Radicali» Giuseppe Rippa di seguito riportata, Craxi è stato uno dei leader politici più diffamati della storia recente. Per quanti hanno creduto alla fantasiosa storia del tesoro personale di Craxi, servita più che altro a intraprendenti pm per giustificare viaggi in mezzo mondo senza mai essere lontanamente dimostrata dai dati di fatto (il tenore di vita di Craxi era infinitamente meno lussuoso di molti uomini pubblici della cosiddetta seconda repubblica), accuse e malignità non fanno che confermare in realtà un loro pregiudizio negativo.

 

Pochi però si domandano da dove provenga tale pregiudizio. L’origine più vera e profonda risiede nella convinzione che Craxi fosse un “abusivo” nello scenario del potere in Italia. Dall’insofferenza democristiana (Andreotti: “bisogna demitizzare Craxi”) all’odio viscerale dei comunisti berlingueriani (il governo guidato dal segretario Psi definito da Berlinguer “pericoloso per la democrazia” e Craxi stesso qualificato senza mezzi termini da Tonino Tatò come “socialfascista”), passando per l’accanita campagna sistematicamente denigratoria della «Repubblica» diretta da Eugenio Scalfari, è una lunga teoria di avversione manifestata contro colui che più di ogni altro personaggio politico metteva in crisi e contestava il consolidato assetto delle classi dirigenti – politiche e finanziarie – del nostro Paese.

 

Cosa c’entrava quest’uomo alto quasi due metri, ingombrante non solo fisicamente ma soprattutto politicamente, con la rassicurante tradizione consociativa e gattopardesca del Belpaese? Rompeva gli equilibri e faceva esplodere le contraddizioni di un sistema caratterizzato dall’assenza di una vera alternanza tra blocchi sociali e politici diversi e opposti.

 

E per questo motivo non gli si perdonava nulla, nemmeno quello che agli altri – non abusivi e legittimati dal patto sotterraneo tra corporazioni e interessi di parte – era tacitamente consentito, in cambio del sostanziale immobilismo sociale che così risultava sempre garantito. Quando Craxi si provò a rovesciare gli esiti nefasti del “decennio mancato” del consociativismo compromissorio degli anni ’70, avviando il nuovo corso socialista e cercando di creare anche in Italia una forza di sinistra riformatrice con ruolo di governo, fu come se fosse suonato un allarme generale che coalizzò tanto gli altri soggetti del quadro politico, quanto i “partiti irresponsabili” che potevano far conto su un’informazione da tempo omologata alle linee direttive di una finanza per nulla intenzionata a cambiare qualcosa nel panorama italiano.

 

Emblematica la solitudine in cui fu lasciato il Partito socialista di Craxi in occasione del caso Moro, quando solo l’esigua pattuglia dei radicali sostenne con Craxi la necessità di intraprendere la linea umanitaria. Nel 1978, il nuovo corso socialista craxiano definisce meglio la sua strategia, dopo i due anni di incertezza seguiti alla batosta elettorale del 1976 che portò alla segreteria del Psi Bettino Craxi.

 

È una strategia che contesta in radice la cappa di piombo del compromesso storico. Punto di passaggio decisivo la scelta di non aderire alla linea della fermezza, promossa in primo luogo dal Pci e che oggi trova spiegazione non tanto nella difesa dello Stato dal terrorismo brigatista, quanto nella necessità di mistificarne e occultarne per quanto possibile le ambigue relazioni con la superpotenza sovietica.

 

Dalla svolta di allora, Craxi non fa che operare nel senso della costruzione di una sinistra di governo capace di svincolarsi dai retaggi e dalle zavorre del partito comunista. Prima con la scelta di rispondere all’installazione degli SS 20 sovietici, votando a favore della collocazione dei missili Nato a Comiso e poi negli anni di governo, contrastando il potere di veto del Pci e della Cgil accettando la sfida del referendum sui punti di contingenza nell’85.

 

Il 1989 troverà un Psi infiacchito dalla pratica governativa, con Craxi che rinuncia a sfruttare l’occasione delle elezioni anticipate nel 1991 per provare ad ampliare la base di consenso di una sinistra capace di candidarsi a governare il futuro, attraverso la proposta di unità socialista rivolta in primo luogo ai post-comunisti, una volta che questi abbandonano il simbolo della falce e martello e chiedono di entrare a far parte dell’Internazionale socialista.

 

Come andò è a tutti noto; il Pds occhettiano preferì cavalcare la demagogia delle monetine lanciate contro il leader socialista e approfittare della situazione determinatasi con l’inchiesta di Mani pulite, che cancellò le forze del pentapartito col ricorso agli avvisi di garanzia. Scelta miope, perché nel 1994 si scoprirà che la maggioranza degli elettori non coincideva affatto con il cosiddetto “popolo dei fax”.

 

La politica di Craxi potrebbe oggi trovare accoglienza nell’odierno centro-sinistra? Se è vero che Craxi rimane pur sempre un esponente di rilievo del socialismo e che, pertanto, poco o niente ha a che fare con il thatcherismo e il culto quasi sacrale del libero mercato; è però altrettanto vero che un centro-sinistra dominato da fanatismi di vario tipo – dal giustizialismo all’ecologismo militante – ben poco si accorda col disegno di rafforzare la capacità riformatrice di una sinistra di stampo liberal-socialista.

 

Il peso del conservatorismo presente nella Unione fa indubbiamente sbiadire una simile prospettiva, che riacquisterebbe vigore proprio riprendendo i percorsi anticipati dal nuovo corso socialista. C’è da chiedersi quanti siano ad aver preso consapevolezza di ciò. Se anche vi sono, onestamente bisogna riconoscere che la loro voce è decisamente debole e coperta dal frastuono alzato dai promotori delle istanze più demagogiche ed arretrate.

 

(da Quaderni Radicali n.99 del novembre-dicembre 2006)

 

 


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