Quello che segue è il testo – nella traduzione italiana – della comunicazione di Enrico Rufi al convegno “Camus et l’Italie” che si è tenuto nel castello di Lourmarin (in Provenza) il 7 e l’8 ottobre 2005, nell’ambito delle “Journées Méditerranéennes”.
Se sono qui a parlarvi del camusismo di Giacomo Leopardi e di Marco Pannella, poeta e filosofo vissuto due secoli fa il primo, uomo politico (semplifico) oggi settantacinquenne il secondo, è perché a loro devo il mio incontro con Albert Camus. Inoltre, è un modo per dire all’uno e all’altro la mia gratitudine. Del resto, è stata la lettura del Mythe de Sisyphe e dell’Homme révolté che attorno all’età di vent’anni mi ha fatto capire il motivo per cui mi ero scelto come maestri due uomini apparentemente così diversi l’uno dall’altro, e perché avevo avuto ragione di seguirli.
Si tratta di due Italiani apertamente in dissenso con l’ideologia italiana – e sottolineo ideologia italiana – che è cugina germana dell’ideologia francese, così come Bernard-Henri Lévy ce l’ha raccontata al tempo in cui BHL era ancora un dissidente: l’ ‘anti-italiano’ è la definizione che figura nel titolo di un libro (di sinistra) dedicato qualche anno fa a Leopardi (1); quanto a Pannella, è universalmente considerato l’Italiano atipico per eccellenza. Ecco due definizioni perfettamente intercambiabili per due uomini nati a distanza di centotrentadue anni l’uno dall’altro, ma ad appena qualche decina di chilometri in linea d’aria, tra Abruzzo e Marche, sulle rive dell’Adriatico.
Anche Albert Camus era una pecora nera nell’ambiente intellettuale dell’epoca, lui che non condivideva nessuna delle passioni degli intellettuali francesi – cito Marc Lazard e Philippe Roger –, né il comunismo, né l’antiamericanismo e neppure il giacobinismo. Per tradurre in italiano l’isolamento che conobbe Camus in Francia, vale a dire per trovare un corpo altrettanto estraneo alla cultura italiana di quanto lo è stato Camus rispetto alla cultura francese, occorre tornare indietro di più di un secolo. Albert Camus si traduce in italiano ‘Giacomo Leopardi’.
Noi sappiamo oggi che l’anticonformismo di alcuni spiriti liberi si colloca nel solco di una vera e propria tradizione umanistica, un umanismo laico tanto rispetto a Dio quanto rispetto alla Ragione, un umanismo i cui testimoni sono allergici a tutte le ideologie, siano esse francesi, italiane, russe o tedesche, perché agli occhi del Pensiero meridiano non c’è né Settentrione né Meridione. Il fatto di essere Russi, d’altronde, non impediva agli anarchici del 1905 di essere fedeli ai valori della Rivolta...
Già Leopardi, anche lui grande nostalgico dell’antica Grecia, riconosceva che la nostra civiltà è ormai una civiltà settentrionale (come si può vedere anche in America, precisava, chissà se in polemica con gli antiamericani dell’epoca, già in voga tra gli intellettuali del Vecchio Continente) e sosteneva che la vera meridionalità è ormai, forse, più nel tempo (il tempo dell’Antichità greca) che nello spazio, così come il Meriggio di Camus è nel concetto di misura più che in una neolatinità o un neoellenismo dai tratti imbarazzanti di Benito Mussolini, di Francisco Franco o dei colonnelli d’Atene. O dei mafiosi siciliani e degli incappucciati corsi, perché no. Per non parlare dei tagliagole algerini. Il fascismo, ama ripetere Pannella – che cita volentieri La peste a questo proposito per dire la forza di contagio di questo flagello – è il nostro prodotto nazionale che si è meglio esportato all’estero il secolo scorso. Ecco perché dobbiamo aver cari coloro che si sono opposti con intransigenza, rigore, all’ideologia italiana. Mi piace definire ‘camusiani’ questo genere di uomini per due buone ragioni, anzi tre: intanto perché nessuno, come Camus, ha combattuto sul fronte francese questa stessa aberrazione della civiltà occidentale; poi perché la sua opera e la sua testimonianza rappresentano la classicità di questa tradizione; e infine perché il pensiero e la testimonianza di Camus rappresentano i punti di riferimento più sicuri per tutti coloro che continuano a pensare che il fine non può giustificare i mezzi, ma al contrario che sono i mezzi impiegati che qualificano il fine che si vuole raggiungere.
Ho il piacere di evocare in questa comunicazione un certo numero di dissidenti e di umanisti italiani che non solo hanno il diritto di figurare a pieno titolo nell’albero genealogico dell’Uomo in rivolta, ma che sono suscettibili di rafforzare le radici di un albero che deve resistere a venti sempre più forti, e talvolta all’assalto di parassiti.
Gli accenti camusiani ante litteram di Giacomo Leopardi sono lampanti, così come è assordante il silenzio degli studi di letteratura comparata: che io sappia, ad eccezione di un articolo di Norbert Jonard che risale ad una trentina di anni fa (3), né gli studi leopardiani, né quelli camusiani si sono occupati della parentela spirituale che lega i due scrittori. Giusto qualche citazione qua e là, più da parte dei leopardisti che dei camusiani, a dire il vero.
Carlo Bo o Emanuele Severino, per esempio. Ovviamente, perché Leopardi non ha conosciuto Camus, e anche perché il nome del poeta di Recanati non finisce mai, se non vado errato, sotto la penna di Albert Camus. La qual cosa, comunque, non può non stupire, come vedremo più avanti. Accade perfino che un camusiano e un leopardiano coabitino nella stessa persona – è il caso di Franco Cassano – senza che i due entrino praticamente in contatto fra di loro (4). Ciò è dovuto al fatto, credo, che in Italia l’ ‘ala politica’ dei leopardisti è piuttosto marxista (mi limito a citare Cesare Luporini, Walter Binni, Sebastiano Timpanaro, Emanuele Severino), e perfino cattolica.
È il caso di don Luigi Giussani, il prete fondatore di Comunione e Liberazione, il movimento cattolico che si è distinto ultimamente nella crociata contro la libertà di ricerca scientifica sulle cellule staminali. Il suo capo politico, Roberto Cesana, in occasione di una recente manifestazione a Milano (5), non ha esitato ad annettere Giacomo Leopardi, dicendo che l’uomo moderno «è caduto nel buio perché è stato lasciato solo». Sostituite Leopardi con Camus, e la mia indignazione sarà la vostra, perché la solitudine del genere umano è anche la fierezza dell’autore della Ginestra, il testo più camusiano di Leopardi con la sua invocazione della «social catena», con il suo appello alla solidarietà fra gli uomini.
Il caso di Carlo Bo è particolarmente interessante. Carlo Bo, uno dei massimi francesisti italiani, scomparso quattro anni fa, era il più attrezzato, lui che aveva saputo riconoscere e il carattere camusiano di quel che viene chiamato, con un luogo comune, il pessimismo di Leopardi, e la funzione del tutto originale del nichilismo del poeta italiano: la stessa, praticamente, di Albert Camus. Lo conferma il lessico critico di Bo, che rimanda direttamente a una terminologia camusiana, in particolare «rivolta» e «affermazione-negazione».
Facendo nel 1962 il bilancio – molto magro – dell’eredità di Leopardi (6), invano Carlo Bo ha cercato tra i grandi della cultura italiana qualcuno, nel ventesimo secolo, in grado di riprendere il discorso della Ginestra. Allo stesso modo, non potevano soddisfarlo le piste che ha seguito al di là delle Alpi e dei Pirenei, e che l’hanno portato a Rémy de Gourmont e a Miguel Unamumo. Avrebbe dovuto cercare sulle rive del Mediterraneo, avrebbe trovato. Se non ha trovato, probabilmente è perché si è limitato a cercare tra i leopardiani consci, dichiarati, per così dire.
Carlo Bo aveva constatato, a ragione, che «dalla Ginestra non viene soltanto un modo unico di lettura o un modo unico per pezzi fissi e obbligati: era un’indicazione a fare piuttosto che un’indicazione a sospendere o a rinunciare» e che «gran parte dell’eredità leopardiana [...] è andata perduta nel senso della paralisi: i lettori hanno creduto di dover restare alla ripetizione, all’assuefazione delle scoperte leopardiane, prendendo per risposte, per punti fermi e invalicabili quelli che invece erano inviti a muoversi, a cercare, a lottare». (7)
Ebbene, non vale forse lo stesso per quel che riguarda l’eredità di Camus in Francia? Camus che scriveva che «l’omaggio più grande [...] che possiamo tributare [ai nostri nobili predecessori] consiste nel continuarli, e non nel consacrarli». (8)
Dal bilancio che ebbi modo di fare un paio di anni fa nelle Sfumature di Camus, la situazione è rimasta invariata. Catherine Camus ha perfettamente ragione quando dice che ormai suo padre viene citato perché «fa chic».
Prova ne sia che fa notizia quando una citazione ha un peso specifico più pesante. Penso, in particolare, a Denis Jeambar, alla forza, alla credibilità che il suo pamphlet contro i «dictateurs à penser» trae dalle sue invocazioni a Camus (9), e a Salvatore Veca, che pone la sua ricerca di una teoria della giustizia all’epoca della mondializzazione sotto il segno – o meglio, entro “i paletti” – della doppia fedeltà di Camus alla bellezza e agli oppressi. Ecco un approccio fertile, che permette di riscoprire categorie camusiane dimenticate o ignorate, come ad esempio il concetto di utopia ragionevole proposto da Veca. Il quale – è un caso? – è anche un leopardista. (10)
Vi sono, nondimeno, silenzi inquietanti e dolorosi di cui occorre prendere atto. Mi riferisco, ad esempio, à Pierre-André Taguieff, che è riuscito nell’impresa di scriverSalvaoe un lungo saggio sul progresso senza mai evocare le dispute di Albert Camus con «gli specialisti del progresso» (11). Lo stesso trattamento riservato da Taguieff a Leopardi (12) suona per me come un’importante conferma.
Ne approfitterei, se permettete, per fare un rapido aggiornamento delle quotazioni internazionali di Camus: la tendenza che avevo visto delinearsi due anni fa si conferma, vale a dire una crescente attenzione da parte della cultura anglo-sassone per Camus. L’omaggio resogli dal presidente Bush a Bruxelles alcuni mesi fa (13) è assai significativo, poiché conferma che il pensiero di Albert Camus è più che mai vivo negli Stati Uniti sia tra gli intellettuali leftists come Paul Barman che tra i neocons, che non sono, in definitiva, che «alter- leftists»: Michael Ledeen, per esempio, per il quale, pare di capire, il giudizio lusinghiero di Hannah Arendt resta sempre valido a distanza di cinquant’anni. (14)
Ma torniamo ai leopardisti. Côté marxista, si presta probabilmente più al sorriso che all’indignazione l’entusiasmo di un Toni Negri per Giacomo Leopardi, che, a sentire lui, sarebbe un rivoluzionario se solo non fosse nato troppo tardi per essere un sanculotto o troppo presto per essere un comunista. Ecco una stupidaggine che il rivoluzionario fallito avrebbe potuto risparmiarsi se avesse riconosciuto Albert Camus nel poeta italiano, anche se gli sarebbe bastato riconoscere Leopardi in Giacomo Leopardi: come Francesco De Sanctis e Cesare Luporini, i quali scrivevano, il primo poco dopo l’unità d’Italia che «se il destino gli avesse prolungato la vita infino al quarantotto [Leopardi morì nel 1837], senti che te l’avresti trovato accanto, confortatore e combattitore», e il secondo, un secolo più tardi, che «il ’48 avrebbe certamente significato qualcosa, e forse molto, per Leopardi. Ma non sappiamo se il ’48 dei liberali, dei moderati o dei “democratici” italiani. Egli si trovava su un’onda più lunga». (15)
Non certo quella di Toni Negri, che non si fa scrupolo di utilizzare l’autorità di Leopardi per prendersela con i valori delle identità nazionali europee per ragioni di bassa cucina ideologica. Una volta di più, Camus l’avrebbe aiutato a cogliere correttamente il senso di un passaggio dello Zibaldone (16), in cui Leopardi scrive che : «Quando tutti furono cittadini Romani, Roma non ebbe più cittadini; e quando cittadino Romano fu lo stesso che Cosmopolita, non si amò più né Roma né il mondo».
« Per trovare la società umana – scrive dal canto suo Camus nella Premessa delle Chroniques algériennes –, occorre passare attraverso la società nazionale. Per preservare la società nazionale, occorre aprirla sulla prospettiva universale». Beninteso, anche Camus può contare in Italia di alcuni ammiratori imbarazzanti, tra cui un fan-club al Secolo d’Italia, il quotidiano dei postfascisti, che da una parte ha di recente polemizzato in nome di Camus col presunto sartrismo del giornale dei postcomunisti impenitenti Liberazione, e dall’altro con L’Unità, l’organo dei postcomunisti pentiti, per applaudire ai tentativi negazionisti giapponesi a propostito del massacro perpetrato dall’esercito del Sol Levante a Nanchino nel 1937. (17)
Un discorso a parte merita il professor Paolo Flores d’Arcais, l’agitatore populista assetato di giustizia di cui ho avuto a suo tempo l’occasione di ipotizzare (18) che la sua partecipazione al convegno del Beaubourg su Camus e la menzogna poteva, camusianamente, essere stata un malinteso: un po’ come l’infatuazione di Toni Negri per il ‘compagno’ Leopardi. Probabilmente – mi dicevo – i camusiani francesi ignorano la doppia vita del professor D’Arcais – giustizialista al di là delle Alpi, campione dei valori libertari al di qua. Che cosa direbbero i suoi fan se sapessero che il loro giustiziere non approfitta delle sue tribune parigine per dissociarsi pubblicamente da quel sovversivo di Albert Camus, che ad un certo punto ha manifestato il programma di « confondere i giudici» ? (mi riferisco, evidentemente, al saggio su Oscar Wilde). (19)
Dopo aver letto la trascrizione della tavola rotonda « Albert Camus e la nostra storia immediata», che aveva chiuso il convegno del Beaubourg, vedo che la mia ipotesi non era campata in aria: che cos’è, se non un malinteso, rimpiangere Albert Camus perché dobbiamo fare a meno della sua querida presencia nei ‘girotondi’ contro Silvio Berlusconi, come Flores D’Arcais l’ha lasciato intendere? Non molto chiaramente, è vero, ma abbastanza per Alain Finkielkraut – anche lui tra i partecipanti al dibattito – il quale, avendo sentito Flores D’Arcais dire che « i crimini dei paesi socialisti non possono più servire da alibi per coprire gli errori e i crimini dei paesi nei quali viviamo» ha dovuto precisare – rispondergli, di fatto – che « la questione dell’attualità di Camus cela una trappola.
Siccome Camus ha dedicato molto tempo, energia, azione e pensiero alla critica del totalitarismo, si ha l’impressione – magari giustificata, per carità – che il totalitarismo ce lo siamo lasciato alle spalle, e si può essere tentati di dire che Camus ha sì criticato il totalitarismo, ma che è attuale nella misura in cui non ha dimenticato di criticare le nostre società, che, loro, continuano a funzionare oggi come ieri, ai suoi tempi. In altre parole: la critica al totalitarismo va da sé, e perciò non serve, per una riflessione su Camus, prendere in considerazione la nostra storia immediata. Ecco, si dimentica, in questo modo, che ciò che andava da sé all’epoca era per l’appunto, in ogni caso nell’intellighenzia, l’adesione o, se non l’adesione, la sdrammatizzazione, la minimizzazione, del totalitarismo, complicità praticamente, per cui non si è al riparo del conformismo di oggi se non ci si rende conto del conformismo di ieri». E a scanso di equivoci, Finkielkraut contrappone ai rancori politicistici del professor D’Arcais la sua propria indignazione umana, camusianamente attualizzata, davanti all’ultima (all’epoca) strage di uomini, donne e bambini israeliani in Kenya (20)
Grazie al professor D’Arcais possiamo tornare meglio a Leopardi e Camus. In realtà, il fatto che nessuno – tanto al di qua quanto al di là delle Alpi – abbia avvertito l’urgenza di far incontrare i due uomini, per rafforzarli a vicenda, rivela, oltre che una rimozione del pensiero meridiano, l’inadeguatezza dei nostri mediatori culturali, che sanno maneggiare solo in modo approssimativo la similarità ingannevole degli orizzonti culturali francese e italiano, e che altro non sono, il più delle volte, che turisti di alto bordo, importatori di luoghi comuni.
Fare il corrispondente a Roma o a Parigi, essere autore di best-seller, stella del cinema, o intellettuale alla moda non mette al riparo né dal culturalmente corretto né dai “faux amis” culturali, cioè le false analogie e le ambigue affinità, che sono trappole altrettanto numerose e insidiose dei “faux amis” linguistici. E non assicura neppure nessuna particolare familiarità con gli idiotismi culturali che hanno corso legale fra i Transalpini.
Non posso qui fare la lista dei malintesi, delle sciocchezze e delle falsità accreditate dai nostri rispettivi passatori ai più alti livelli, a cominciare dalle colonne di Le Monde e della Repubblica. Giusto a titolo d’esempio: côté intellighenzia francese, i cliché ridicoli dell’antifascismo all’epoca del Salone del libro di Parigi nel 2001; côté intellighenzia italiana, le idee confuse sul pensiero unico francese. I nostri mediatori culturali italiani non si sono accorti che il conformismo stava trionfando tra il secondo turno delle ultime présidenziali, grosso modo, e la liberazione di Bagdad, come ho cercato di documentare nelle Sfumature di Camus. Di Francia conformista si sono invece messi a sproloquiare successivamente, come se i grandi dibattiti che hanno diviso la Francia in questi ultimi tre anni (velo islamico e scuola pubblica, Turchia in Europa, Costituzione europea) non avessero dato prova di una salute democratica che né la Spagna, né l’Italia, né la Germania si sono sognate con le percentuali bulgare delle loro ratifiche parlamentari della ‘Costituzione europea’.
Sostenere che Albert Camus si traduce in italiano con ‘Giacomo Leopardi’, e che Marco Pannella parla un linguaggio molto evocativo per i camusiani non vuol dire che questa sia necessariamente un’evidenza agli occhi di chiunque. Del resto, l’obiettività non è una virtù, né agli occhi del camusiano, né a quelli del pannelliano: « faziosi ma leali», ama rivendicare Pannella; «talvolta l’obiettività è compiacenza», ci mette in guardia Camus. (21)
La mia filologia è quindi più affettiva che scientifica, come avrete probabilmente capito, ma di un genere più collettivo che soggettivo, per così dire. Diciamo ‘politico’, per rendere l’idea.
D’altro canto, è la dimensione politica della loro filosofia, del loro umanesimo, che dà un plusvalore al leopardismo di Camus e al camusismo di Leopardi, e che non restringe la prospettiva alla visuale della lente d’ingrandimento della letteratura comparata.
Le corrispondenze tra la poetica di Leopardi e quella di Camus saltano agli occhi, ma Leopardi non è il Vigny italiano, così come il suo ideale eroico è più vicino a quello di Camus che a quello di Vittorio Alfieri. «L’eroe del vero», «renitente al fato» al «comun fato» della Ginestra ha lo stesso patrimonio genetico di Sisifo, il Sisifo felice, la stessa deontologia dell’Uomo in rivolta. Perché sia l’uno che l’altro non si sono rassegnati né piegati al ricatto logico, morale e metafisico di quel ‘No’ e quel ‘Sì’ che esigono dai mortali un’adesione esclusiva. E questo rende la loro testimonianza non omologabile a quella dei nichilisti e degli stoici degli ultimi due secoli.
L’anticonformismo di Leopardi, il suo rifiuto di conformarsi alle ideologie e ai miti del suo secolo «superbo e sciocco» – Ragione, romanticismo, progressismo – il suo sarcasmo sulle «magnifiche sorti e progressive», il suo proclamare l’innocenza dell’uomo, l’esito civile e civico che trovò alla condizione esistenziale e sociale dell’uomo, il suo nichilismo senza compiacimento, sono altrettanti segni di quell’umanesimo laico che sono destinati a rimanere indecifrabili agli occhi di chiunque è politicamente indifferente, se non ostile, alle testimonianze di coloro che hanno saputo rimanere sordi alle «superbe fole», alle illusioni, alle utopie sanguinarie della nostra era.
Costoro, ahimè, non sono stati numerosi, né in Italia, né in Francia. Al di qua delle Alpi, tuttavia, chissà, grazie a Leopardi, questo genere di dissidenti sono stati meno isolati di quanto non lo sia stato Camus a Parigi, al punto che Leonardo Sciascia – uno di loro, peraltro – ha potuto parlare dell’«altra Italia»:
«Figure che sembrano emarginate e quasi scomparse, [...] insegnamenti che sembrano inascoltate: e invece hanno, non conclamata, una loro forza sotterraneamente e a volte, quando più occorre, un’improvvisa insorgenza. Ed è l’Italia, per ricordare i più vicini, dei Salvemini, dei Martinetti, dei Borgese, dei Rensi, dei Buonaiuti. Che non è l’Italia che reinvesta Machiavelli, ma quella che rilegge Dante: per dirla con una battuta. Né è un caso che gli uomini di cui ho fatto il nome abbiano pagato di persona la loro ‘eresia’». (22)
Uno di questi eretici, il leopardiano Giuseppe Rensi, ci rimanda direttamente ad Albert Camus, che nella prefazione del Mythe de Sisyphe aveva scritto – un po’ imprudentemente – «il nostro tempo non ha conosciuto una filosofia assurda». Ebbene, non solo Rensi è l’autore di un trattato intitolato La filosofia dell’assurdo (pubblicato nel 1937), ma anche di un’altra opera che porta il titolo camusiano di Lo sguardo di Sisifo.
Una volta di più, si può parlare di camusismo, per Rensi, come lo abbiamo fatto a proposito di Leopardi, poiché il filosofo scomparve nel 1941. Desta meraviglia, per contro, che Camus non lo conoscesse, dato che Jean Grenier, il suo maestro, aveva per Rensi una grande considerazione, come sta ad attestarlo il suo articolo «Giuseppe Rensi – Le scepticisme», pubblicato nel 1926 e ripreso per la prefazione dell’edizione francese della Filosofia dell’assurdo (23). Schernito dal fascismo trionfante, isolato dal marxismo e dal neopositivismo, la sua «filosofia della rivolta contro il reale » (24) – così la definì nel 1932 il filosofo Adriano Tilgher, anche lui un eretico dell’altra Italia di cui parlava Sciascia – fu colpito da ostracismo per lunghi decenni.
Il nome di Leonardo Sciascia non capita a caso. A differenza di tanti altri intellettuali italiani, la sua passione per il pensiero indomito è testimoniato dalle sue scelte e dalla sua opera. Sciascia non si accontenta di guardare al passato, di tributare omaggi postumi che non costano niente.
L’altra Italia non aveva disarmato con l’avvento del regime postfascista. Al contrario, col passare degli anni si era formato un nocciolo duro attorno ad un piccolo partito libertario, dal socialismo e dal liberalismo ‘empirico’, come Chiaromonte diceva di Camus (25), che a partire dagli anni ’60 si era fatto carico dell’eredità della tradizione dell’anticomunismo democratico di Giustizia e libertà di Carlo e Nello Rosselli e del Partito d’Azione, del federalismo europeo del manifesto di Ventotene, e che aveva importato le lotte americane per i diritti civiNicolali e i metodi di disobbedienza nonviolenta.
Cattiva coscienza della sinistra italiana, il Partito Radicale ha potuto contare sull’amicizia e spesso sul sostegno militante delle figure più nobili dell’Italia laica, a cominciare da Sciascia, per l’appunto, che nel 19709 accettò di essere eletto deputato nelle liste radicali che avevano lo stesso simbolo del P.S.F. di François Mitterrand.
Questa avventura collettiva della libertà è detta ‘pannelliana’, dal nome di colui che ne è stato il motore fin dall’inizio. Un’avventura che ha portato spesso i suoi protagonisti in carcere, e che a qualcuno è costata la vita. Vi ricorderete probabilmente del giornalista italiano assassinato quattro anni fa in Georgia per aver cercato troppo da vicino la verità sui massacri dell’esercito russo in Cecenia. Ebbene, era un radicale, Antonio Russo. Lavorava con noi a Radio Radicale.
Ora, che i politologi, i filosofi, gli intellettuali-mediatori-passatori non abbiano mai accostato il nome di Pannella a quello di Camus è la spia, più che dell’oblìo, dell’impermeabilità alla lezione di Camus da parte della cultura ufficiale italiana, la sola con cui gli intellettuali parigini intrattengano rapporti diplomatici. Sempre ottimi, peraltro.
Come dicevo all’inizio, è a Marco Pannella che devo il mio incontro con Albert Camus. E’ arrivato il momento di essere un po’ più precisi. Non che Pannella mi abbia mai parlato di Camus, non che me lo abbia mai presentato. Sono stato io, credo, ad avergliene parlato per primo, quando gli feci notare quanto Camus ci assomigli, a noi radicali. Non credo che ci avesse mai pensato.
Se non ho rischiato di considerare Camus un autore fra gli altri, è perché ho riconosciuto nei suoi scritti – ri-conosciuto, per l’appunto – un linguaggio, una morale, un rigore, dei princìpi, che già mi erano familiari grazie alla prassi politica di Pannella. «Coloro che mi assomigliano», diceva del resto Camus per definire i suoi compagni (26) : Nicola Chiaromonte, Ignazio Silone, ad esempio, vale a dire due dei principali punti di riferimento, con Gaetano Salvemini ed Ernesto Rossi dei giovani fondatori del Partito Radicale. E con Salvemini ci troviamo di fronte ad un’altra vicenda di ri-conoscimento, come lascerebbe sospettare una lettera che quest’ultimo mandò a Rossi nel 1946 dagli Stati Uniti. (27)
Camus e Pannella non condividono solo l’amicizia o l’esempio di alcuni spiriti illuminati (ben più numerosi, in realtà, se consideriamo anche gli Altiero Spinelli, i Salvador de Madariaga, le Simone Weil...). Nessuno, a sinistra, come Camus in Francia e Pannella in Italia è stato tanto odiato dai comunisti. Mi limito a ricordare la bagarre in Parlamento tra i duecento e passa deputati del PCI e i quattro neodeputati radicali che nel ’76 pretendevano di sedersi alla sinistra dei loro colleghi. Rivendicazione molto camusiana, no?
Non si sono sbagliati i puri e duri della sinistra italiana che nei confronti di Pannella hanno attinto allo stesso repertorio derisorio che era servito a suo tempo contro Camus – Camus il «santo laico» dalla «morale della Croce Rossa» – trattando il leader radicale da «santone laico», e accusandolo di scimmiottare la Croce Rossa quando nel 1980 lanciò una campagna contro lo sterminio per fame nei Paesi poveri.
Pier Paolo Pasolini, il marxista eretico che venne assassinato alla vigilia del suo intervento al congresso del Partito Radicale, denunciava il disprezzo teologico che circondava Pannella, il grande vincitore del referendum del ’74 sul divorzio (28): il Comitato centrale del PCI da un lato, le gerarchie cattoliche dall’altro.
Ancora: Pannella è stato direttore responsabile di giornali anarchici e goscisti, e non ha mai sopportato di essere trattato da ‘moderato’. Semplici coincidenze? Non è stato premiato dall’Accademia delle Scienze di Stoccolma – non ancora, perlomeno – ma è riuscito venticinque anni fa a procurarsi il sostegno di ottanta premi Nobel. Non è un letterato, ma ha saputo ispirare i poeti, come Francesco De Gregori. E i poeti – da Pier Paolo Pasolini a Fabrizio De André, a Herbert Pagani – lo hanno considerato uno dei loro: un artista. E che dire della sua campagna politico-linguistica per la soppressione del trattino nella parola ‘non-violenza’ ? Come minimo, che anche lui ha il senso della sfumatura.
Per parafrasare Camus che parla dell’Italia (29), ci si può immaginare Pannella che si chiede: « Ma questa lezione, la devo a Camus o ce l’avevo nel cuore?».
E poi le campagne per il diritto-dovere d’ingerenza, per un’organizzazione mondiale delle democrazie, per la creazione del Tribunale Penale Internazionale, per l’abolizione della pena capitale; le azioni di disobbedienza civile nell’Est comunista, la denuncia del pacifismo, il sostegno alle vittime dell’imperialismo russo in Cecenia. È così azzardato riconoscervi lo spirito e la lezione di Camus?
Certo, le simpatie della maggior parte dei radicali italiani andavano all’epoca, senza troppe sfumature, all’FLN algerino, ma quei giovani autodidatti non erano ancora attrezzati contro i mediatori della sinistra dell’epoca. Trent’anni dopo, di fronte alle carneficine del GIA, Pannella riconoscerà che Camus aveva avuto ragione (30). Già al momento del crollo dell’apartheid in Sudafrica, Pannella era su posizioni camusiane, contro la demagogia filo-ANC della sinistra terzomondista. Ed è una lista di sinistra alternativa voluta da Pannella che fece propria l’obiezione di coscienza del Sudtirolose Alex Langer di fronte alla scelta di appartenenza etnica (italiana, tedesca o ladina) imposta dalla legge sul censimento del 1981. «Bisogna scegliere da che parte stare, grida chi è accecato dall’odio», réagivano in qualche modo Langer e Pannella assieme a Camus. (31)
L’odio, per l’appunto. È possibile combattere efficacemente l’attuale offensiva del terrorismo che certuni chiamano nichilista, ma che in fondo non è che fanatismo, senza acconsentire di diventar simili agli assassini, senza far ricorso all’odio, senza invocare la vendetta? Senza seguire i neocrociati dell’Occidente, gli esibizionisti del ‘western pride’, tipo Oriana Fallaci, quella della rabbia più che dell’orgoglio, o Giuliano Ferrara il teocons (il quale – sarà un caso ancora una volta? – considera Leopardi un ben modesto pensatore rispetto a Joseph Ratzinger) (32), o Marcello Pera, il laico devoto che siede alla presidenza del Senato italiano, per non citare che i campioni peninsulari? E, allo stesso tempo, senza avallare l’ideologia europea – quel mix di buonismo, pacifismo, droit-de-l’hommisme, multiculturalismo – che trionfa nella Spagna zapaterista?
Le durissime polemiche di Marco Pannella con gli uni e con gli altri dimostrano che è sempre possibile «battersi disprezzando la guerre» e lottare per – ricordate? – «quella sfumatura che separa il sacrificio dalla mistica, l’energia dalla violenza, la forza dalla crudeltà». (33)
Soltanto un’adesione serena, critica ma senza complessi, alla civiltà occidentale può impedire che gli inermi diventino inerti. Camus delle Lettres à un ami allemand. Camus delle Chroniques algériennes, che scrive: « [...]mi pare rivoltante fare il mea culpa, come i nostri giudici-penitenti, sul petto degli altri, vano condannare secoli di espansione europea». Camus che scrive che «non sarà certo attraverso l’Oriente che l’Oriente si salverà fisicamente, ma attraverso l’Occidente». (34)
Perché, come i Cabili, anche gli Iracheni hanno diritto alla democrazia.
Si dirà che questo Camus è di parte. Beh, ci mancherebbe che non lo fosse più! E allora, contro la tentazione di un camusismo sterilizzato, che eviti di sporcarsi le mani nelle cose del mondo contemporaneo, di reagire alle sofferenze e ai crimini degli uomini di oggi, prendiamo l’esempio di Marco Pannella come un incoraggiamento a recuperare, a ritrovare – cioè a riattualizzare – la dimensione militante della lezione camusiana.
Credo che sarà allora un po’ meno facile citare Camus così, «perché fa chic».
Note
1 Massimiliano Biscuso, Franco Gallo, Leopardi antitaliano, Manifestolibri, 1999.
2 Marc Lazard, Le communisme, une passion française, Perrin, 2002; Philippe Roger, L’ennemi américain. Généalogie de l’antiaméricanisme français, Seuil, 2002.
3 Norbert Jonard, «Leopardi et Camus», p. 233-247.
4 Franco Cassano, Il pensiero meridiano, Laterza, 1996 ; Franco Cassano, Oltre il nulla. Studio su Giacomo Leopardi, Laterza, 2003.
5 Manifestazione «Fratello embrione, sorella verità» al Palalido (Milano), 14 maggio 2005. Archivio sonoro di Radio Radicale.
6 Carlo Bo, L’eredità di Leopardi, Firenze, Vallecchi, 1964.
7 Op. cit., p. 18.
8 Albert Camus, Essais, Gallimard, 1965, p. 752.
9 Denis Jeambar, Les dictateurs à penser et autres donneurs de leçons, Seuil, 2004.
10 Salvatore Veca (éd.), Giacomo Leopardi, Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani, Milano, Feltrinelli, 1991.
11 Albert Camus, «Avant-propos» à La Maison du peuple, in Essais, Gallimard, 1965, p. 111.
12 Pierre-André Taguieff, Le sens du progrès, Flammarion, 2004.
13 «We know there are many obstacles and we know the road is long. Albert Camus said that freedom is a long-distance race, We’re in that race for the duration.» George W. Bush, discorso alla sede della NATO a Bruxelles, 21 febbraio 2005.
14 «The Europeans might have confronted their spiritual crisis after the Second World War (some brave souls, like Albert Camus, tried), but the Cold War tamped it down », Michael Ledeen, National Review, 10 novembre 2004.
15 Cesare Luporini, Leopardi progressivo, Editori riuniti, 1980, p. 98.
16 Giacomo Leopardi, Zibaldone, tradotto, presentato e annotato da Bertrand Schefer, Allia, 2003, p. 1996.
17 Aldo Di Lello, «Intellettuali e demoni», Il Secolo d’Italia, 11 aprile 2005. 18 Le Sfumature di Camus, Memini – Radio Radicale, Roma, 2003.
19 «L’artiste en prison», in Essais, Gallimard, 1965, p. 1123.
20 Albert Camus et le mensonge, atti del convegno organizzato dalla Bibliothèque publique d’information il 29 e il 30 dicembre 2002 al Centre Pompidou, Bibliothèque publique d’information/Centre Pompidou, 2004. Cf. p. 219-238.
21 Albert Camus, Carnets II, Gallimard, 1964, p. 267.
22 Leonardo Sciascia, prefazione alle Lettere spirituali di Giuseppe Rensi, Adelphi, 1997, p. 3.
23 Giuseppe Rensi, La Philosophie de l’absurde, Editions Allia, 1996.
24 Cité par Nicola Emery in Lo sguardo di Sisifo. Giuseppe Rensi e la via italiana alla filosofia della crisi, Settimo Milanese, Marzorati editore, 1997, p. 333.
25 Nicola Chiaromonte, «Il militante Albert Camus», Il Mondo, II, n° 40, 11 novembre 1950.
26 Albert Camus, Actuelles I, in Essais, Gallimard, 1965, p.357.
27 Ernesto Rossi – Gaetano Salvemini. Dall’esilio alla Repubblica. Lettere 1944-1957), a cura di Mimmo Franzinelli, Bollati Boringhieri, 2004, p. 176. 28 Corriere della Sera, 16 juillet 1974.
29 Albert Camus, Noces, in Essais, Gallimard, 1965, p. 87.
30 « Questa 'peste' che divampa nel mondo – da quella terra dove si sta attuando un vero e proprio genocidio – era stata profetizzata dall'algerino francese Albert Camus, cui fu tragicamente imputato dalle 'sinistre' di ogni tipo di non addebitarla tutta alla Francia e ai suoi pur gravi errori. Camus, invece – ora lo sappiamo – fu grande, tragico profeta»: Marco Pannella, comunicato stampa, 8 gennaio 1998.
31 Albert Camus, Chroniques algériennes, in Essais, Gallimard, 1965, p. 984. 32 Il Foglio, 30 agosto 2005.
33 Albert Camus, Lettres à un ami allemand, in Essais, Gallimard, 1965, p. 222, 224.
34 Albert Camus, Chroniques algériennes, in Essais, Gallimard, 1965, p. 897- 898, 979.
- L’umanesimo di Albert Camus a sessant’anni dalla sua morte di Enrico Rufi