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03/12/24 ore

L'aggressione in Ucraina, il mondo odierno e lo status della Russia come grande potenza



di Mihail Dobre *

 

(Articolo pubblicato in lingua romena il 29 giugno 2022 sulla piattaforma PRESShub.ro)

 

Per più di quattro mesi, le relazioni internazionali e la nostra vita quotidiana sono state invase dalle immagini schiaccianti degli effetti dell'aggressione militare della Federazione Russa contro il suo stato vicino, l'Ucraina. A partire dal 24 febbraio 2022 il dramma ucraino è parte integrante della nostra quotidianità. In televisione, sulla stampa scritta, in ambiente online si fanno numerose analisi, si commentano le evoluzioni delle operazioni militari, nonché i vari tentativi di avviare una forma di dialogo tra le parti, ovviamente al fine di porre fine al conflitto.

 

Da quanto detto e scritto sulla crisi in Ucraina si intravedono almeno un problema di atteggiamento ed una possibile trappola. Il problema dell'atteggiamento, recentemente evocato dal Sommo Pontefice, il papa Francesco, sta nel pericolo che la situazione in Ucraina - che è, qualsiasi sia il termine usato da Mosca, uno stato di guerra - diventi parte della vita quotidiana, con la perfida stimolazione della percezione che la guerra faccia parte delle normali relazioni tra i paesi. Per quanto riguarda la trappola, essa appare in varie posizioni, anche formulate da scienziati politici di notorietà mondiale come Henry Kissinger, secondo il quale non è da escludere la possibilità che l'Ucraina ceda dal territorio nazionale per ottenere la pace.

 

Comunque, la guerra non deve entrare a far parte della nostra vita quotidiana. Per di più, l'Ucraina non deve cedere territorio per avere la pace, perché, se ciò fosse accaduto, gli elementi essenziali dell'organizzazione del sistema internazionale postbellico sarebbero messi in discussione. E l'attuale sistema internazionale, che si trova all'origine del più lungo periodo di pace nella storia dell'Europa (e dell’Italia e della Romania), rappresenta la base insostituibile dello sviluppo libero di ogni Stato, nonché la principale fonte per il progresso eccezionale che l'umanità ha conosciuto negli ultimi decenni.

 

D’altra parte, va detto che la situazione attuale ha anche un grande perdente, ovvero la Russia. I dirigenti russi hanno iniziato una guerra che non possono e non sanno concludere in termini favorevoli per la presente élite politica di Mosca, le cui ambizioni politiche sono ben oltre le sue risorse (ad esempio, il PIL russo è vicino al PIL cumulato del Benelux, cioè inferiore al PIL delle più grande economie europee, Italia inclusa).

 

In più, le principali difficoltà per porre fine a questo conflitto sono legate al fatto che lo Stato russo ha uno status privilegiato nell'attuale sistema internazionale, uno status in base al quale Mosca, da un lato, blocca l'attività dell'ONU, e dall’altro non cessa di comportarsi in modo minaccioso. Basta pensare che la spinta bellicosa della leadership russa ha sollevato rapidamente la delicata questione dell'uso delle armi nucleari. Tuttavia, sulla base delle esperienze del Novecento, Mosca dovrebbe essere ben consapevole che gli atteggiamenti arroganti ed i comportamenti aggressivi non producono dividendi politici e non generano soluzioni. Ciò detto, penso che servi un’analisi.

 

L'espansionismo russo ha generato paure e sfiducia nei rapporti con i suoi vicini

 

L'impero russo non è una creazione politica di lunga data nella storia europea e mondiale. Dopo una lunga dominazione dei mongoli, lo stato russo è entrato nei rapporti politici europei solo alla fine del Seicento e all'inizio del Settecento, soprattutto in seguito allo spirito riformatore del suo primo imperatore, Pietro I il Grande, il cui sguardo era costantemente rivolto verso l’Occidente europeo.

 

L'espansionismo russo si fece sentire fortemente nel Settecento e nell'Ottocento, quando l'Impero degli zar fece costanti acquisizioni territoriali al suo confine occidentale, occupando, tra gli altri, la Crimea (1783), una parte importante della Polonia (1795) e la Bessarabia moldava (nel 1812). Il Novecento è stato segnato da una storia turbolenta per l'Impero russo, ma nonostante ciò le aspirazioni all’espansione territoriale sono state ancora perseveramente sostenute, indipendentemente dalla natura del regime politico di San Pietroburgo o di Mosca. E ben noto che durante la seconda guerra mondiale, l'espansionismo dell'Urs fu promosso lungo due linee di azione, e cioè: a). di garantire la sua vicinanza agli stati di tipo sovietico; b). di creare una cintura di sicurezza al suo confine occidentale, inizialmente attraverso dei patti di mutua assistenza e l'installazione di basi militari, e poi attraverso annessioni territoriali. 

 

Va notato, tuttavia, che Mosca si è comportata in tal modo nonostante il semplice fatto che la sua partecipazione alla coalizione delle Nazioni Unite, e cioè la sua adesione alla „Dichiarazione delle Nazioni Unite” (1 gennaio 1942), comportasse anche l’adesione all'insieme dei principi contenuti nel documento anglo-americano „Carta Atlantica” (dal 14 agosto 1941), i cui termini ripudiavano nettamente l'idea di acquisizioni territoriali con la forza.

 

Così, nel 1945 l'Unione sovietica mantenne le sue acquisizioni territoriali (metà della Polonia, i Paesi baltici, la Bessarabia) ottenute durante la collaborazione con la Germania nazista nell'ambito del Patto Ribbentrop-Molotov (del 23 agosto 1939). Infatti, alla fine della seconda guerra mondiale, le suddette linee d'azione seguite da Mosca furono pienamente realizzate. Inoltre, l'Urs è stata uno degli attori chiave nel mondo del dopoguerra, agendo per quasi mezzo secolo come una superpotenza in competizione strategica globale con gli Stati Uniti e dominando tutti gli stati che si trovavano nell'Europa centrale e orientale.

 

La Russia post-sovietica non ha accettato la condizione di "stato normale”

 

Dopo la fine della Guerra Fredda e, soprattutto, dopo il crollo dell'Unione sovietica, la nuova Russia post-comunista sembrava accettare ciò che gli altri grandi attori della vita internazionale si aspettavano da essa: cioè che si comportasse come uno stato normale, secondo le regole del funzionamento del sistema internazionale di cui la Russia è stata e continua a far parte. Queste regole si basano sui principi sanciti dalla Carta delle Nazioni Unite, principi che per lo spazio europeo sono stati rafforzati dall'Atto Finale di Helsinki (1975) della Conferenza sulla sicurezza e la cooperazione in Europa (CSCE).

 

I primi segnali post-Guerra Fredda dati da Mosca hanno generato la speranza che i vertici russi siano veramente animati dall'idea di un comportamento normale nelle relazioni internazionali. Così, durante l'ultimo periodo dell'esistenza dell’Urs, il presidente Mikhail Gorbaciov ha sostenuto l'autorizzazione dell'uso della forza contro l'Iraq nella prima guerra del Golfo (con la Risoluzione 678 del Consiglio di sicurezza del 29 novembre 1990) e ha approvato l'unificazione della Germania (attravesto il Trattato sullo stato finale della Germania, firmato a Mosca il 12 settembre 1990). Dopo la disintegrazione dell'Urs nel dicembre 1991, la Russia del presidente Boris Eltsin ha accettato il ritiro delle truppe russe (ex sovietiche) dagli stati baltici (nel 1993 dalla Lituania e nel 1994 dall'Estonia e dalla Lettonia), si è parzialmente adeguata all'espansione della NATO verso est sullo sfondo dello sviluppo dei rapporti istituzionalizzati con l'Alleanza atlantica (fra l’altro, la Russia ha partecipato sin dall’inizio ai lavori del Consiglio di Cooperazione del Nord Atlantico - 1991 e poi al Partenariato per la Pace - 1994), è entrata a far parte del Consiglio d'Europa (nel 1996) ed ha avviato un partenariato con l'Unione Europea (in 1997). In particolare, la Russia ha sottoscritto il Memorandum di Budapest del dicembre 1994, vale a dire l’accordo politico che ha aperto la strada alla denuclearizzazione dell'Ucraina, ma ha anche garantito “l'indipendenza, la sovranità e i confini esistenti” dello Stato ucraino.

 

Tuttavia, il comportamento normale della Russia era solo un'apparenza. Anche dai tempi di Boris Eltsin (presidente nel periodo 1991-1999), i decidenti russi non hanno esitato a sviluppare concetti che tornavano alla logica dell'espansionismo zarista/sovietico, negando quell'insieme di impegni e principi a cui la Russia aveva sottoscritto. Il caso più rilevante è la formulazione della teoria russa degli interessi speciali in ciò che Mosca ha definito come “Estero vicino”/“Near Abroad”. Questa formula, apparsa dal 1992, aveva lo scopo di designare gli stati che avevano fatto parte dell'Urs, poiché l'intero spazio geopolitico dell'ex Unione Sovietica era identificato come una sfera di interesse vitale per la Russia.

 

Può essere utile aggiungere che all'epoca uno dei promotori di questa teoria, Sergei Karaganov, allora vicedirettore presso l'Istituto per l’Europa dell'Accademia Russa delle Scienze, disse che lo scopo della politica russa nel Near Abroad era quello di proteggere i russi con ogni mezzo, compresa la forza ("dobbiamo ristabilire il ruolo della forza come strumento risolutivo”).

 

Dopo le dimissioni del presidente Eltsin nel dicembre 1999 e l'ascesa al potere del suo ultimo primo ministro, Vladimir Putin, gli approcci di Mosca si sono inaspriti. Ciò che la Russia post-sovietica aveva accettato sotto Eltsin nella CSCE (divenuta OSCE nel 1995), nel senso di rispettare l'insieme degli impegni e dei principi dell'organizzazione, iniziò a essere negato dalla nuova leadership, mettendo in pratica un vero stallo dalla parte russa. Non sorprende, quindi, che la prima riunione del Consiglio dei ministri dell'OSCE che si è conclusa senza l'adozione di una dichiarazione di politica generale - un documento che metteva in luce la sitauzione dei vari conflitti regionali -, si sia tenuta a Vienna nel novembre 2000, cioè il primo anno della leadership di Putin.

 

Da quel momento in poi, è stato raramente possibile raggiungere un consenso su una dichiarazione di politica generale del Consiglio dei ministri dell'OSCE. Il motivo? La Russia non accetta decisioni in merito ai conflitti regionali che sono gestiti dell'OSCE e che sanciscono il mancato rispetto da parte di Mosca di decisioni precedenti, in particolare le decisioni del vertice OSCE di Istanbul del novembre 1999.

 

La partecipazione della Russia ai meccanismi di cooperazione con la NATO, basati sull’„Atto Fondatore” di Parigi del 1997 ("l’Atto istitutivo sulle relazioni reciproche, la cooperazione e la sicurezza tra la NATO e la Federazione Russa”) e la dichiarazione di Roma del 2002 ("Le Relazioni NATO-Russia: una nuova qualità”) ha progressivamente perso consistenza, soprattutto dopo l'intervento militare della NATO del 1999 per il caso Kosovo e la crisi della Georgia del 2008, fino al blocco quasi totale delle forme di dialogo nel secondo decennio del nuovo millennio.

 

È forse ricco di significato il fatto che, dopo l'occupazione illegale della Crimea nel 2014, la Russia ha avviato un processo di abbandono dei trattati internazionali che limitavano gli armamenti e assicuravano la trasparenza del loro utilizzo, trattati che consolidavano le basi della stabilità europea attraverso le loro misure miranti a rafforzare la fiducia e la sicurezza. Un primo caso è stato il "Trattato sulle forze armate convenzionali in Europa”, accordo concluso nel novembre 1990 a Parigi ed in vigore dal 1992, che è stato aggiornato al vertice OSCE di Istanbul nel novembre 1999, ma è stato abbandonato dalla Russia nel 2015. Allo stesso modo, il "Trattato sui Cieli Aperti”, concluso nel 1992 nell’ambito dell'OSCE, con il ruolo di garantire la trasparenza in merito al possesso e al posizionamento del personale militare da parte degli Stati europei sul territorio nazionale, trattato che è stato lasciato, anche questo, dalla Russia nel 2021.

 

Senz’avere il timore di essere sbagliato, si può anche accreditare l'idea che la Russia volesse avere le mani libere da qualsiasi impegno internazionale per regolare a modo suo i suoi obiettivi strategici al confine occidentale. 

 

Tuttavia, anche rimuovendo i suoi impegni derivanti dai vari trattati di sicurezza internazionale, Mosca ha infatti l'obbligo di agire per proteggere la sicurezza di altri Stati, in quanto tale obbligo deriva dalla Carta delle Nazioni Unite, cioè un trattato che la Russia non ha pensato abbandonare e non è interessata nel farlo.

 

Lo status della Russia come grande potenza nel dopoguerra

 

In realtà, le azioni della Russia sotto il leadership di Putin beneficiano del fatto che l'impero di Mosca ha uno status di grande potenza sancito dalla Carta delle Nazioni Unite, ovvero il documento fondatore dell'ordine politico internazionale del dopoguerra. Tra tutti gli elementi che potrebbero contribuire a giustificare l'aspirazione della Russia allo status di grande potenza (per essempio, nella logica di Martin Wight, la popolazione, il territorio, le risorse, l’organizzazione sociale, le tradizioni storiche, la volontà di ingrandire), il più consistente argomento deriva dal fatto che la Russia è membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.

 

La Federazione Russa ha ricoperto dal 1992 la carica conferita inizialmente all'Urs, e lo ha fatto attraverso il tacito riconoscimento all'interno dell'organizzazione mondiale che lo stato russo è il successore dello stato sovietico nella gerarchia del potere delle Nazioni Unite, sebbene non vi sia una decisione formale in questo caso da parte del Consiglio di sicurezza o dell’Assemblea generale.

 

L'appartenenza al Consiglio di sicurezza in quanto membro permanente conferisce alla Russia una posizione di grande autorità, datto che la Carta dell’ONU sancisce l'importanza di questo Consiglio nel lavoro dell’organizzazione mondiale. In questo senso, l'articolo 24 afferma che "Allo scopo di assicurare un‘azione pronta ed efficace da parte delle Nazioni Unite, i Membri conferiscono al Consiglio di Sicurezza la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale, e riconoscono che il Consiglio di Sicurezza, nell'adempiere i suoi compiti inerenti a tale responsabilità, agisce in loro nome”.

 

La Carta dell’ONU stabilisce inoltre che nel Consiglio, in particolare, i membri permanenti hanno il potere decisionale, come specificato nell'articolo 27: "Le decisioni del Consiglio di Sicurezza su questioni di procedura sono prese con un voto favorevole di nove Membri. Le decisioni del Consiglio di Sicurezza su ogni altra questione sono prese con un voto favorevole di nove Membri, nel quale siano compresi i voti dei Membri permanenti….”.

 

In poche parole: un membro permanente ha il diritto di veto, cioè il potere di decidere il corso dell'azione delle Nazioni Unite in una determinata situazione di crisi, come lo ha fatto la Russia nel 24 febbraio u.s., quando, con il suo voto negativo, ha impedito al Consiglio di Sicurezza di agire in relazione alla situazione da Mosca stessa creata in Ucraina. La Russia ha fatto lo stesso negli anni precedenti, ad esempio nel 2009, quando ha impedito l'estensione del mandato della Missione delle Nazioni Unite in Georgia (UNOMIG), in seguito all'intervento militare russo in quello stato nel 2008.

 

È interessante notare che non vi è alcuna disposizione nella Carta dell’ONU che stabilisca esplicitamente gli obblighi degli Stati che hanno un seggio permanente nel Consiglio di sicurezza, obblighi che siano correlati allo status privilegiato che loro detengono. Tuttavia, l'assenza di un provedimento esplicito sugli obblighi dei membri permanenti non deve comportare l'utilizzo discrezionale del diritto di veto. I membri permanenti del Consiglio di Sicurezza, infatti, hanno l'obbligo di assicurare il funzionamento dell’organizzazione, e di non bloccarne l'attività, perché da loro si attende un comportamento maturo, razionale e responsabile.

 

Tale conclusione deriva dall'articolo 1 della stessa Carta, in cui si afferma che lo scopo primario dell'ONU - e quindi anche dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza - è di "Mantenere la pace e la sicurezza internazionale, ed a questo scopo: prendere efficaci misure collettive per prevenire e rimuovere le minacce alla pace e per reprimere gli atti di aggressione o le altre violazioni della pace, e conseguire con mezzi pacifici, ed in conformità ai principi della giustizia e del diritto internazionale, la composizione o la soluzione delle controversie o delle situazioni internazionali che potrebbero portare ad una violazione della pace...”.

 

Allo stesso tempo, la Carta dell’ONU vieta praticamente l'uso della forza a scopo offensivo, datto che l'articolo 2 stabilisce che "I Membri devono risolvere le loro controversie internazionali con mezzi pacifici, in maniera che la pace e la sicurezza internazionale, e la giustizia, non siano messe in pericolo”, e che "I Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall'uso della forza, sia contro l'integrità territoriale o l'indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”.

 

Inoltre, la forza può essere usata solo a scopo di difesa, e in forma limitata e condizionale, come chiaramente affermato nell'articolo 51: "Nessuna disposizione del presente Statuto pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un Membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale. Le misure prese da Membri nell'esercizio di questo diritto di autotutela sono immediatamente portate a conoscenza del Consiglio di Sicurezza e non pregiudicano in alcun modo il potere e il compito spettanti, secondo il presente Statuto, al Consiglio di Sicurezza, di intraprendere in qualsiasi momento quell'azione che esso ritenga necessaria per mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale”.

 

Non solo la Carta delle Nazioni Unite vieta l'uso della forza. Nello stesso spirito, nella “Dichiarazione sui principi che reggono le relazioni fra gli Stati partecipanti” (che è nota anche come il "Decalogo di Helsinki”), l'Atto finale di Helsinki include formule altrettanto potenti sul non-ricorso alla minaccia o all’uso della forza, all'inviolabilità delle frontiere, all’integrità territoriale degli Stati, o alla composizione pacifica delle controversie.

 

Nello specifico, nel primo Principio del “Decalogo”, che fa riferimento all’ ”Eguaglianza sovrana, rispetto dei diritti inerenti alla sovranità”, si sottolinea che “Nell'ambito del diritto internazionale, tutti gli Stati partecipanti hanno eguali diritti e doveri. Essi rispettano il diritto di ciascuno di loro di definire e condurre come desidera le proprie relazioni con gli altri Stati conformemente al diritto internazionale e nello spirito della presente Dichiarazione. Essi considerano che le loro frontiere possono essere mutate, in conformità al diritto internazionale, con mezzi pacifici e mediante accordo. Essi hanno inoltre il diritto di appartenere o non appartenere ad organizzazioni internazionali, di essere o non essere parte di trattati bilaterali o multilaterali, compreso il diritto di essere o non essere parte di trattati di alleanze; essi hanno inoltre il diritto alla neutralità”.

 

Ce rezultă de aici? Simpla lectură a acestui principiu evidențiază o trăsătură esențială a sistemului internațional contemporan, anume faptul că nici un stat nu-și poate dezvolta politicile de securitate prin împiedicarea altor state de a-și exercita drepturile inerente suveranității. Concret, pentru cazul Ucraina: Moscova nu poate cere Kievului să nu aspire la aderarea la NATO, întrucât pe de o parte,  Ucraina are legitimitate în a promova un asemenea obiectiv, iar pe de altă parte, Rusia nu își poate proiecta interesele strategice prin limitarea atribuțiilor suverane ale altor state. Același tip de argumente pot fi utilizate și pentru cazul candidaturii Finlandei și Suediei de aderare la NATO.

  

Cosa ne risulta? Una semplice lettura di questo principio mette in evidenza una caratteristica essenziale del sistema internazionale contemporaneo, ovvero che nessuno Stato può sviluppare le proprie politiche di sicurezza impedendo ad altri Stati di esercitare i propri diritti sovrani intrinseci. Nello specifico, per il caso dell'Ucraina: Mosca non può chiedere a Kiev di non aspirare ad entrare nella NATO, perché da un lato l'Ucraina ha la legittimità per promuovere tale obiettivo, e dall'altro la Russia non può proiettare i suoi interessi strategici limitando i poteri sovrani degli altri stati. Lo stesso tipo di argomentazioni può essere utilizzato anche nel caso delle candidature di Finlandia e della Svezia all'adesione alla NATO.

 

Cosa sta facendo effettivamente la Russia?

 

La risposta a questa domanda è di una semplicità disarmante: sia l'annessione della Crimea nel marzo 2014 che la guerra contro l'Ucraina iniziata nel febbraio 2022 violano gli obblighi internazionali di Mosca e sono in totale contraddizione con lo status della Russia in quanto membro permanente del Consiglio di sicurezza dell'ONU.

 

I decidenti russi propongono un modello di riflessione sulle relazioni internazionali che non si fonda sul quadro convenzionale definito nella Carta dell’ONU, ma su forme molto più antiche di un sistema basato sulla competizione aggressiva delle grandi potenze, un sistema che è stato ripudiato dalla storia in seguito alle due catastrofiche conflagrazioni mondiali del Novecento. L'attuale forma del sistema internazionale, istituita nel 1945 e incentrata sul funzionamento dell'ONU, si fonda su un nucleo di idee democratiche che hanno le loro origini nel pensiero politico degli alleati dell'Urs nella coalizione anti-hitleriana, la parte sovietica essendo interessata, nel periodo del negoziato per la Carta delle Nazioni Unite, solo a proteggere i suoi interessi strategici.

 

Allo stesso tempo, attraverso il suo comportamento, la Russia è riuscita a generare paura e sfiducia. Il ricorso in varie occasioni da parte di Mosca alla minaccia dell'uso delle armi nucleari tradisce infatti debolezza, così come l'incomprensione del fatto che il riconoscimento per la Russia dello status di "Stato militarmente nucleare” , in conformità con le disposizioni del Trattato di non proliferazione nucleare del 1968 - uno status che la Russia detiene insieme agli altri quattro membri permanenti del Consiglio di sicurezza – ha generato obblighi in materia di non proliferazione e in nessun modo la prerogativa di far l'uso di questo tipo di armi.

 

Nel complesso, a prescindere da come le disposizioni della Carta dell’ONU o dell’Atto finale di Helsinki possano essere lette e interpretate, è ovvio che con le sue azioni la Federazione Russa ha fatto esattamente il contrario di quanto era obbligata a fare nell’attuale sistema, causando sfiducia e insicurezza. La parte russa ha minato il funzionamento dell'organizzazione mondiale e del forum paneuropeo, ma in questo modo ha anche minato la sua propria posizione, mettendo in discussione il suo status nella comunità internazionale e, di conseguenza, la sua qualità di grande potenza.

 

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* Mihail Dobre - Diplomatico e storico romeno. Già ambasciatore di Romania presso la Santa Sede (2002-2006), dopo una missione diplomatica anche presso la Repubblica Italiana (1996-1999). È stato viceministro romeno degli Affari esteri (2013-2014). Insegna Politica estera, diplomazia e relazioni internazionali presso la Facoltà di Storia dell’Università di Bucarest e ha scritto numerosi saggi e articoli.

 

 


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