Informativa

Questo sito o gli strumenti terzi da questo utilizzati si avvalgono di cookie necessari al funzionamento ed utili alle finalità illustrate nella cookie policy. Se vuoi saperne di più o negare il consenso a tutti o ad alcuni cookie, consulta la cookie policy.
Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie.

08/09/24 ore

1974: la costruzione del ‘compromesso storico’



di Domenico Mazza

 

Contesto storico

 

Del “1974” si è tornato recentemente a discutere per via dei vari “quarantennali” sotto cui ricadono e per via dell’anno spartiacque che questi “dodici mesi” hanno rappresentato per la vita sociale e politica italiana. A proposito di ciò, appaiono interessanti le constatazioni fatte al suo tempo da Giuseppe Tamburrano, attento osservatore del periodo. Egli, conscio del peso che la passata esperienza del governo “Andreotti- Malagodi” ebbe sulla Dc, scriveva nel 1974 che l’alleanza con i socialisti non doveva essere considerata uno stato di necessità poiché ciò avrebbe comportato un collasso del sistema di alleanze su cui si reggeva il Paese. 

 

Alla luce di quelli che furono i successivi risultati del referendum sul divorzio, la cui campagna elettorale fu ideologizzata dal segretario Fanfani, nonché sul nuovo ruolo che il Pci si apprestava ad interpretare nel rinnovato panorama culturale del “dopo-voto”, Tamburrano avvertiva ancora che:

 

Il giorno in cui la Dc fosse davanti alla scelta tra una maggioranza con i socialisti e una con i fascisti sarebbe finito il sistema su cui si regge la vita politica da venticinque anni perché l’area di centro non sarebbe più maggioritaria e la Dc non potrebbe più essere un partito di centro, mantenersi su una linea di centralità: l’alleanza col PSI sarebbe una svolta a sinistra e l’accordo col Msi provocherebbe una frattura drammatica nel paese. 

 

Egli, in sostanza, preconizzava che le decisioni politiche susseguenti sarebbero state influenzate da un partito in piena crisi egemonica, che non aveva saputo cogliere la “modernità” prodotta dai risultati referendari. 

 

Invero, il referendum sul divorzio non fece altro che accelerare la trasformazione culturale dell’elettorato e dell’opinione pubblica italiana, fin troppo sofferente di fronte all’austerità economica e già sgomenta per il colpo di stato cileno. 

 

Fu in questo quadro politico che andava formandosi il dialogo tra Berlinguer e Giulio Andreotti sul “compromesso storico”.

 

Su “Rinascita”, il 12 ottobre 1973, Enrico Berlinguer affermava che era: “sempre più urgente e maturo che si giunga a quello che può essere definito il nuovo grande “compromesso storico” tra le forze che raccolgono e rappresentano la grande maggioranza del popolo italiano”.

 

Per Berlinguer, quindi, la proposta di un nuovo modello di socialismo doveva essere portata al vaglio del consenso della maggioranza dei cittadini; quindi, un sostanziale giudizio su un potenziale compromesso tra le forze maggioritarie del Paese disposte a progettare un’alternativa attraverso cui il Pci si sarebbe proposto come forza di governo.

 

Giulio Andreotti non replicò immediatamente alle considerazioni di Berlinguer, anzi, attese quasi un mese, precisamente il 10 novembre, prima di controbattere. Nel corso di un comizio a Larino, vicino Roma, platealmente affermò:

 

Quasi non bastassero i gravi problemi ordinari e straordinari che si devono già fronteggiare in questo momento, il segretario del PCI ha agitato le acque con la mano tesa verso la DC suscitando ovviamente confusioni ed equivoci. Cosa può esserci dietro?

 

Secondo Andreotti le ipotesi erano quattro:

 

  1. Il PCI vuole imporsi come forza “partecipe” a seguito della caduta del governo Andreotti. Superamento della conventio ad excludendum;
  2. Il PCI vuole sostituirsi agli altri partiti nelle alleanze di governo con la DC. Collaborazione e non scontro con i democristiani;
  3. Il PCI teme che i governi di centrosinistra possano raggiungere obiettivi importanti oscurando la politica di “opposizione diversa” avviata da Berlinguer;
  4. Il PCI converge sulla DC parallelamente alla sollecitazione che si vada verso l’unità sindacale. Dialogo dei comunisti con tutta la DC e non solo con la sinistra democristiana.

 

Tanti dubbi che condussero ad un'iniziale reazione di rigetto delle proposte berlingueriane. 

 

Tuttavia, si trattava di convinzioni provenienti da un Andreotti nuovamente fuori dalle dinamiche di governo dopo l’esperienza “quasi personale” con i liberali. 

 

Nel corso degli ultimi mesi a Palazzo Chigi, egli era stato sempre più incalzato da Moro e Fanfani, e la successiva prevaricazione della corrente maggioritaria guidata da Piccoli, Rumor e Bisaglia, aveva dato al suo precario governo il colpo di grazia. Terminata, quindi, l’esperienza del centrodestra, Andreotti meditava una nuova fase strategica che tenesse in considerazione sia le tradizionali culture politiche sia le tendenze politiche che andavano affermandosi nel “dopo-voto” referendario, come quella federalista-comunitaria. 

 

Andreotti, infatti, aveva compreso l’importanza della Comunità europea, da egli considerata: “a cavallo tra politica estera e politica istituzionale”

 

Andreotti, infatti, sembrò preferire occuparsi di altro piuttosto che dare attenzione a Berlinguer: la commissione esteri, il Parlamento europeo (“a Strasburgo ho visto l’attivismo dei tedeschi” dichiarava). 

 

Il 16 marzo 1974, giorno successivo al giuramento al Quirinale da ministro della Difesa, Andreotti, rientrato finalmente nell’esecutivo, incontrando Berlinguer apprese da quest’ultimo l’apprezzamento per alcune sue considerazioni sul referendum rilasciate il 7 marzo a Oriana Fallaci. C’era adesso un Andreotti che dialogava (astutamente) con il segretario del Pci, nonostante Vito Miceli, il controverso direttore del Servizio Informazioni della Difesa, lo esortava da anni a non credere ai tentativi di destabilizzazione del Paese ma piuttosto ai tentativi di eversione del Pci.

 

Ma Andreotti era ormai “oltre” e scriveva nel suo diario:

 

… il PCI vuole responsabilizzarsi. Per la non scarcerazione degli ergastolani ecc., non movendosi il governo […], il PCI ha presentato la proposta. Dove andiamo a finire? La via cilena ai militari e non al socialismo non deve negligersi. Dobbiamo trovare qualcosa di nuovo. […]. Va dato un ruolo all’opposizione. Vanno fatti discorsi impegnativi fra tutti. Io osservo che la situazione internazionale (USA-URSS, CSCE) facilita questo punto. Ci si ritroverà.

 

Secondo Andreotti, l’opposizione comunista non poteva ancora subire l’isolamento degli anni precedenti. In fondo, era ancora il Pci della linea di Togliatti sull’articolo 7 della Costituzione. Per questo, a seguito della sconfitta democristiana (e missina) al referendum sul divorzio del 12 maggio, Andreotti vide con favore la nuova strategia di Berlinguer di far “sopravvivere” il quarto governo Rumor per mantenere un interlocutore in quella che la dirigenza comunista aveva definito la “settimana di pensamento”: il Pci voleva adesso il dialogo con la Democrazia cristiana, la quale si era dimostrata, dopotutto, attenta ai temi dell’antifascismo e della libertà di stampa, in particolare quella degli editori compiacenti con i comunisti. 

 

Andreotti, nel frattempo, andava ancora oltre e manifestava pubblicamente le sue antipatie nei confronti di Vito Miceli, tanto da comunicare direttamente a Massimo Caprara, giornalista de “Il Mondo”, della sostituzione di Miceli al SID: “Miceli ha maturato la promozione a generale di copro d’armata e verrà destinato a Vittorio Veneto o a Milano”

 

Questi, venne poi arrestato il successivo 31 ottobre con l’accusa di cospirazione contro lo Stato, nell'ambito dell’inchiesta sulla cosiddetta “Rosa dei Venti”, un’associazione segreta di cui facevano parte elementi dei servizi segreti, dei quali è stato supposto un coinvolgimento nel tentato Golpe Borghese del dicembre 1970.

 

L’arresto di Vito Miceli, tuttavia, va ricondotto a ben altri “ripensamenti politici”, e quindi alle manovre politiche decisive per il dialogo con il Pci. Lo intuirono gli esponenti del Msi e della cultura di destra, i quali considerarono i più recenti avvenimenti il frutto di manomissioni politiche atte a strumentalizzare fatti e eventi indecifrabili.

 

Si pensi, ad esempio, alle accuse di strumentalizzazione politica del golpe (o di “golpe neri”), una questione ancora dibattuta, denunciata all’epoca dalla stampa di destra, recentemente evidenziata da una ricerca di Jack Greene e Alessandro Massi in “Il principe nero”, edito nel 2021. I due studiosi fanno loro la tesi secondo la quale “i politici sfruttarono il golpe Borghese in vari modi. Nel caso di Andreotti, per adottare toni antifascisti e preparare l’apertura a sinistra”.

 

Quando nel 1974 la magistratura tornò a occuparsi del golpe Borghese, Andreotti si dimostrò molto attento ai risvolti che la vicenda avrebbe avuto. Emergono, infatti, dai diari di più recente pubblicazione, numerosi riferimenti sui fatti dell’otto dicembre 1970. Scrive Andreotti il 12 luglio 1974: “Apprendo da Volpe [John Volpe ambasciatore USA in Italia] che nell’estate del 1970 la CIA aveva avvertito che il principe Borghese stava organizzando qualcosa”. 

 

Questa è soltanto una delle tante altre annotazioni sulla vicenda che dimostrano premura e attenzione del leader democristiano nei confronti di vicende rimaste in parte avvolte nel mistero. Lo ha confermato Gianadelio Maletti, il quale raccontò come Andreotti fosse molto interessato al terrorismo nero e ai complotti. Maletti, che è morto da latitante in Sudafrica per via di una intrigata vicenda politica e giudiziaria, aveva presentato ad Andreotti un dossier a proposito dei rischi su un imminente colpo di stato da parte di generali e altissime cariche istituzionali.

 

La consegna del dossier nel settembre del 1974 fu considerato da Andreotti un dovere per ribadire l’estraneità delle forze armate da ogni intrigo. Ma c’è chi accusò Andreotti di essersi avvicinato al Pci per motivi di opportunità politica e che la riapertura dell’inchiesta sul golpe fu una sorta di regalo fatto ai comunisti per guadagnare la loro fiducia in vista della potenziale presidenza di Andreotti nel primo governo del “compromesso storico”. Ma non solo. 

 

A queste ipotesi si aggiungano quelle derivanti da atteggiamenti che, secondo esponenti del variegato mondo della destra degli anni Settanta, rivelerebbero un disegno politico di Andreotti. Racconta ad esempio l’ex andreottiano Filippo De Jorio che, nell’estate del 1974, alcuni comportamenti di Andreotti lo avevano notevolmente sorpreso, come il “pugno sinistro” mostrato ai militanti dell’Associazione Partigiani a Firenze, mentre entrava in sala per un convegno. 

 

Anche i giornali di destra sospettarono un disegno politico dietro queste mosse e decisero di sbeffeggiare quella che considerarono una strumentalizzazione. In una edizione de “Il Candido”, dell’ottobre del 1974, un articolo irrideva l’atteggiamento pacifico di Andreotti, sorridente al passaggio di alcuni gruppi partigiani, e con il pugno sinistro alzato durante la parata commemorativa: “l’onorevole Andreotti si diverte, a quanto pare, quando fanno, gli Ottentotti, la parata militare”. 

 

La stampa di destra, oltre a essere irriverente, lanciò delle vere e proprie accuse nei confronti della leadership democristiana. Ad esempio, “Il Secolo d’Italia” accusò Andreotti e il ministro degli interni Taviani di “voler confezionare golpe neri per fare un regalo al PCI”. All’accusa si aggiungeva anche Giorgio Pisanò, il quale, sempre su “Il Candido”, nel novembre del 1974, scriveva a proposito dell’inchiesta “rediviva” di Vitalone sul golpe:

 

A meno di un miracolo, quindi, le istruttorie saranno unificate a Roma, dove impera, sulla scena, quel dottor Vitalone, fedelissimo di Andreotti, che non si capisce bene che parte abbia nella inchiesta sul “golpe” di Borghese, visto che già nel 1971 se ne interessò tanto bene da mandare prosciolti gli imputati da ogni accusa.

 

Con ciò, potrebbe affermarsi che gli anni precedenti la nascita del governo della “non sfiducia” furono ostaggio di un gioco di potere che vide Andreotti, insieme al suo gruppo, assumere atteggiamenti spregiudicati che condizionarono la sua stessa corrente. De Jorio, ad esempio, accusato da Vitalone di essere uno dei congiurati del 1970, riparò a Monte Carlo e sarebbe rientrato in Italia solamente nel 1978. 

 

Sull’Affaire Borghese e le contraddizioni all’interno della corrente andreottiana, il giornalista Mino Pecorelli, in un articolo pubblicato su OP il 10 giugno 1977, scriveva:

 

Sempre più strano, questo strano processo al golpe Borghese. Potrebbe svolgersi tutto nell’anticamera dello studio di Andreotti. Pensate, andreottiano il pubblico ministero Vitalone, andreottiana la longa manus della legge (nella fattispecie La Bruna e Maletti), andreottiani gran parte degli imputati. Valgono per tutti i nomi di Orlandini e De Jorio […]. Fossero tutte qui le stranezze […]. È che quando il SID di Miceli condusse la sua inchiesta informale [sul golpe del 1970] anche la procura romana avviò caute indagini. In quell’occasione fu proprio l’andreottiano Vitalone a definire le informative fornite dal Servizio sul golpe “soltanto fogli di carta” […]. Come mai ora quel golpe non è ritenuto più presunto? In tante giravolte, in tanti mutamenti, tra tanti voltagabbana, l’unica costante è la vocazione andreottiana degli interpreti principali del processo. Vuol dire che forse nel frattempo è cambiato Andreotti?

 

Al vuoto di potere si sostituiva una politica di sospetti e di continue strategie. 

 

Al dibattitto si aggiunse in seguito anche Pier Paolo Pasolini, il quale, nel 1975, scriveva: “È probabile che in effetti il “vuoto” di cui parlo stia già riempiendosi, attraverso una crisi e un riassestamento che non può non sconvolgere l’intera nazione. Ne è un indice ad esempio l’attesa “morbosa” del colpo di Stato”.

 

In conclusione, potrebbe affermarsi che la politica di preparazione del “compromesso storico”, seppure preceduta da una crisi politica e istituzionale definita di “vuoto politico” o “di potere”, determinava una sostanziale carenza dell’offerta culturale della politica democristiana nell’azione di governo. 

 

Lo stesso Andreotti, inizialmente interessato a recuperare “i voti dati in prestito”, quelli che gli ex elettori democristiani spostarono sulla destra nazionale, preferì perseguire un disegno politico inedito più che alternativo, che sarebbe sfociato nella sostanziale esigenza di potere che, alla fine del decennio, avrebbe messo in “accordo” democristiani e comunisti.

 

 


Aggiungi commento