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23/11/24 ore

Lino Jannuzzi, per ricordare



Di Lino Jannuzzi, scomparso il 7 agosto 2024, si può ben dire che non faceva il giornalista; lui era giornalista. Nel senso che la sua attività di inchiesta e cronaca rappresentava piuttosto una condizione, che non un mestiere: una condizione vissuta con tratti di genialità. 

 

Ad essere geniali si attraggono inevitabilmente invidie e risentimenti, che Lino Jannuzzi da maestro sapeva reinviare al mittente nel modo beffardo che lo contraddistingueva. Ne rimane traccia nei profili su di lui che occupano oggi la “rete” del web, dove si esercitano i livori di mediocri estensori dediti a elencare i procedimenti giudiziari contro di lui.  A costoro poco importa che, per lo più, quelle condanne siano la palese dimostrazione dell’impunità e dell’arbitrio goduti dai querelanti (magistrati e non), allo scopo di punire chi aveva osato denunciare con coraggio anomalie e abusi nell’esercizio di una funzione così fondamentale come la giustizia.

 

Per sottrarre Jannuzzi alla minaccia di detenzione, dopo aver perduto il processo promosso dalle toghe che accusarono ingiustamente Enzo Tortora, dovette intervenire la grazia del Presidente Ciampi. Un caso unico nella storia, rivelatore di quanto ancora arretrato sia il grado di civiltà giuridica di un ordinamento pesantemente inquinato da logiche autoritarie.

 

Il giornalismo di Jannuzzi era un giornalismo coraggioso, capace di andare controcorrente rispetto alle narrazioni imposte dal mainstream informativo. Proprio per questo agli antipodi del giornalismo travestito, dove non si capisce bene il ruolo recitato a metà fra agit-prop e mercenario, e che tanto ha contribuito ad allontanare dalla comprensione dei fatti che accadono. 

 

In questi giorni, che vedono tornare all’attenzione delle cronache eventi drammatici come i depistaggi sulle indagini di mafia o si assiste a manifestazioni di faziosità strumentale, volte a precludere ogni sincera ricerca di verità, gli articoli scritti da Jannuzzi appaiono quasi preveggenti in quanto avevano indicato per tempo le soglie che si sarebbero dovuto varcare e che, colpevolmente, l’informazione nel nostro Paese si guarda bene da fare.

 

Al fianco di Leonardo Sciascia nell’individuare i rischi dell’anti-mafia parolaia, a Lino Jannuzzi si è pure rimproverato il suo scetticismo circa la proposta lanciata da Giovanni Falcone di istituire una Procura nazionale anti-mafia (nessuno però ha voluto ricordare che Falcone pensò a quegli strumenti contro la Mafia delle stragi che fu sostanzialmente vinta e che oggi quegli stessi strumenti appaiono obsoleti di fronte alla Mafie e alle Mafie riconvertite al riciclaggio, alla finanza, alla sanità, alla energia eolica, puntando in primo luogo agli appalti…). 

 

Uno scetticismo proiettato più che alla ipotesi della proposta di allora,  a quello che poi si è venuto a sviluppare nei decenni successivi che, nella deriva emersa dall’utilizzo illegale delle intercettazioni, appare tutt’altro che ingiustificato. Paradossale è invece che tale rimprovero gli sia stato mosso dai diffamatori seriali del magistrato ucciso a Capaci, abituati a gloriarsi del nulla e a scagliare pietre incuranti delle loro ormai sempre più evidenti mancanze. 

 

In ricordo di Jannuzzi, ripubblichiamo di seguito l’intervista che fece a «Quaderni Radicali» n. 52-53 nel 1997 dove, partendo dalla ricostruzione dello scoop che lo rese celebre sul caso Sifar, egli offrì una lettura non conforme sull’Italia delle trame e che, in definitiva, a chi sa ben guardare, dimostra come a essere troppi non siano tanto i misteri, quanto i segreti che si insiste – da parte dei media, come pure della politica e delle istituzioni – a nascondere.

 

È il nostro modo per dirgli un’ultima volta: “ciao, Lino”.

 

 

 

*******

 

 

 

Pochi misteri nei segreti dei servizi

 

 

Penso che sia il caso di cominciare ricordando come si giunge alla pubblicazione del servizio sul Sifar. Mi sembra che «L’Espresso» arrivò con un certo ritardo ad occuparsene...

 

 

È vero, in quell’occasione «L’Espresso» si fece battere sul tempo da «L’Europeo». Ma poi recuperò, poiché svelò il piano Solo, di cui nessuno fino allora aveva parlato.

 

Inizialmente il “caso Sifar” nasce infatti da una lotta ai vertici delle forze armate, dopo che per un lungo periodo aveva prevalso su tutti il generale De Lorenzo. Sia perché si trattava di un ufficiale capace e sia perché era molto ambizioso. Nel 1967, De Lorenzo aveva sotto controllo le due cose più efficienti nell’ambito militare: i carabinieri (di cui era comandante) e i servizi segreti che di fatto non aveva abbandonato, avendovi collocato persone di sua stretta fiducia. A quel punto venne fuori che il Sifar, sotto la sua guida, era mutato in un organo di schedature interne non allo scopo della sicurezza dello Stato, ma al fine di esercitare ricatti politici.

 

Lo scandalo monta sempre più e come al solito si fa una commissione d’inchiesta, presieduta dal generale Beolchini, che accerta l’esistenza di numerosi fascicoli riservati. Giunti a questo punto, in Parlamento si svolgono vari dibattiti, per lo più infuocati, ma che non erano certo interessanti da un punto di vista giornalistico.

 

Finché su «L’Europeo», Renzo Trionfera pubblica uno dei dossier riservati riguardante Saragat. Dopo questa uscita, dall’ «Espresso» mi mandano a chiamare in Sicilia, dove mi trovavo per occuparmi di mafia. Allora c’era una vera e propria ossessione competitiva tra i due settimanali. Non bisogna dimenticare, fra l’altro, che «L’Espresso» era nato da una costola dell’ «Europeo», quando il direttore Arrigo Benedetti ruppe con Rizzoli per assumere invece la direzione de «L’Espresso». Fra i due periodici c’era dunque una gara spasmodica che dura anni e anni, fino a quando «L’Espresso» non staccò di netto la rivista rizzoliana.

 

Insomma, dovevamo rispondere alla sfida. Ma quando arrivo a Montecitorio è tardi: siamo già al quarto o quinto dibattito. Dalla tribuna dei giornalisti vedo Moro stanco, più stanco che mai  al banco del governo che ascoltava il dibattito, in una Camera quasi vuota. Stava parlando Luigi Anderlini, il quale a un certo momento abbandona il tema delle schedature che, va ricordato, erano per lo più su politici dell’area di governo: paradossalmente, era questa la vera deviazione del Sifar. E, come per inciso, Anderlini dice: “non parliamo poi della crisi del suo governo nel 1964 e del ruolo che giocò in quell’occasione il generale De Lorenzo: altro che schedature!”. Al che Moro alzò improvvisamente la testa.

 

 

Quasi avesse sentito un campanello d’allarme...

 

Il campanello lo sentii io. Al bar, avvicinai Anderlini e cercai di fargli dire di più. Lui si schernisce, dice che sono cose delicate, ma ormai ho subodorato che la materia è interessante. C’era, insomma, polmone per i gatti e così dopo molte insistenze Anderlini decide di fissarmi un appuntamento con Ferruccio Parri, il quale oltre a raccontarmi quello che sa, mi fa il nome di alcuni alti ufficiali che mi danno le altre notizie. Così trovai il materiale per fare l’articolo che uscì il 14 maggio e «L’Espresso» poté vendicarsi del concorrente proponendo ai lettori un boccone assai più ghiotto dei pettegolezzi sulle schedature...

 

 

Ecco, ma del piano Solo sappiamo finalmente tutto?

 

Ma direi proprio di sì. Già con quello che pubblicai io si era venuti a capo dell’essenziale. Rimase coperta ancora qualche carta, ma poi dopo le elezioni del ’68 ci fu la commissione parlamentare che in sei mesi chiarì ogni cosa. Dalla commissione vennero fuori due relazioni, una di maggioranza e l’altra della sinistra, che risultarono abbastanza concordi almeno per quel che riguardava la ricostruzione dei fatti nudi e crudi. Nel giro di poco più di un anno le anticipazioni degli articoli trovarono insomma conferma nei documenti ufficiali.

 

 

«L’Espresso» parlò di colpo di Stato...

 

Ma quelli erano i titoli sparati dal direttore; del resto, già nel processo io stesso ridimensionai la faccenda cercando di sollevare un poco le responsabilità di Antonio Segni. Con buona pace di tanta retorica della sinistra, il ruolo che egli svolse fu sacrosanto e legittimo: all’epoca degli incontri con De Lorenzo si era a quattro anni dalla caduta del governo Tambroni.

 

Un governo legittimo che venne rovesciato dalla piazza, dopo sanguinosi tumulti. Forse una delle vicende più antidemocratiche nella forma e nella sostanza della nostra storia recente...

 

 

Vuoi dire che il piano Solo doveva servire a scongiurare il ripetersi di quegli eventi?

 

I fatti sono chiarissimi. Al congresso della DC a Napoli, dove Moro parlò per sei ore ottenendo via libera per imbarcare i socialisti nel governo, il grosso del partito rappresentato dai dorotei il cui capo carismatico era appunto questo esangue e splendido vecchio sardo, Segni, si decise al grande passo con grande cautela. A Segni stesso spetterà il compito di farsi garante dell’operazione e per questo fu eletto Presidente della Repubblica. Dopo di che, si accende il contrasto sui punti programmatici chiesti dai socialisti basato su tre punti: nazionalizzazione dell’energia elettrica, regioni e riforma urbanistica. 

 

Quando la congiuntura economica peggiora, è Segni a dire al neo-presidente del Consiglio Moro di fermarsi e rinviare a tempi più propizi le riforme. Un’iniziativa, quella del Quirinale, che vanta il sostegno della Cee.

 

 

È a questo punto che si apre la crisi di governo...

 

Sì e come al solito l’incidente parlamentare che ne è all’origine riguarda tutt’altri argomenti, mi pare che il fattore scatenante riguardasse la scuola. Di fronte alla nuova situazione, Segni fece questo semplice ragionamento: se il PSI si piega ed accetta ugualmente di far parte del ministero, nulla quaestio; ma se ciò non accade, non c’è altra uscita che dare l’incarico per un governo di emergenza a una personalità quale Merzagora o, tutt’al più, Taviani, altro doroteo allora molto in auge. 

 

È evidente che un governo del genere potrà contare su una maggioranza simile a quella di Tambroni ed è essenziale che non si ripetano i fatti del 1960. All’epoca la piazza prevalse e venne forzato l’ordinamento costituzionale. Ora, passati quattro anni, si erano aggiornate le disposizioni per prevenire l’azione organizzata dei comunisti: tutto ciò era legittimamente previsto dal Ministero dell’Interno. Lo “scandalo”, se di scandalo vogliamo proprio parlare, si manifesta nel momento in cui Segni, anziché convocare Moro e i responsabili dell’ordine pubblico e sollecitarli a non farsi trovare impreparati, chiama il “solo” De Lorenzo.

 

Questo è l’unico punto che potrebbe consentire un richiamo davanti alla suprema corte: tutto il resto, si badi bene, è ineccepibile. Ora, c’è chi attribuisce a De Lorenzo una forzatura della volontà del presidente e chi, come il figlio del generale, sostiene che De Lorenzo si limitò a ubbidire.

 

 

Quali furono le conclusioni della commissione di indagine parlamentare?

 

Essenzialmente due. La prima, che non c’era alcun mistero. Secondo: la causa lontana di tutto quello che fu fatto e preparato in quell’estate del ’64 era il “colpo di Stato” vero, messo a segno dalla piazza nel luglio 1960 e che Segni non voleva si ripetesse.

 

 

Resta il fatto che la sinistra ha fatto di questa storia un po’ la madre di tutti i misteri d’Italia...

 

Sui cosiddetti misteri d’Italia la sinistra ha potuto rafforzarsi. Ho sempre sostenuto, anche se può apparire paradossale, che tutti i misteri – comprese le stragi – sono servite non al potere legittimo per restare in sella, ma all’opposizione per crescere. Se non ci fossero state mafia e stragi, l’Italia sarebbe stata tranquillamente dove stava e oggi non avremmo gli eredi del PCI al governo. Se non c’era la mafia che votava DC in Sicilia e non c’era la Cia che metteva le bombe, perché questa è poi la tesi ultima, ai comunisti sarebbe stato molto più difficile imporsi. Si tratta, è quasi superfluo dirlo, di una tesi del tutto inattendibile.

 

 

D’altra parte, ammesso che le stragi fossero organizzate dai servizi allo scopo di far mantenere il potere a chi ce l’aveva ed escludere la sinistra, c’è da chiedersi come mai una strategia del genere si sia mantenuta anche dopo il ’76, quando appariva evidente che, ciononostante, il PCI saliva sempre nei consensi.

 

Bisogna capire un fatto. L’Italia è un Paese che ha avuto vent’anni di Fascismo, i quali si sono conclusi con una tremenda guerra civile. Da allora sono rimaste numerose frange che al Fascismo hanno continuato a richiamarsi. Che il potere lo sapesse, e li lasciasse fare magari per una visione miope o per sciatteria, è quasi scontato.

 

Se escludiamo quelle che hanno matrici diverse od origini internazionali, gli autori delle stragi di Piazza Fontana, di Brescia e dell’Italicus sono tutti individuabili – al di là delle costruzioni processuali macchinose – nei gruppi oltranzisti tipo Ordine nuovo. Se vogliamo metterci anche il treno 904, che Vigna ha inserito nell’intreccio tra camorra e fascisti, sono quattro le stragi che hanno visto operare dei neo-fascisti: tutto il resto non c’entra niente.

 

 

C’è la strage della stazione di Bologna...

 

No, quella ha tutt’altre caratteristiche e che la Mambro e Fioravanti siano in carcere per questo non è che l’ennesima ingiustizia messa in atto in questo Paese. Ha ragione chi ne attribuisce la paternità al terrorismo libico in risposta al nostro impegno per la protezione di Malta. L’ora in cui esplose la bomba è la stessa in cui Zamberletti, sottosegretario agli Esteri, firma il trattato con il governo maltese.

 

 

Per chiudere, allora, cosa sono stati i servizi segreti in Italia?

 

Direi l’intreccio di tre componenti fondamentali. Prima di tutto l’inefficienza ladronesca che ha toccato il culmine con la vicenda Sisde. A cui si è accompagnata una tradizione risalente ai Borboni e a al Papa Re, fatta di poliziotti rozzi e furbastri. Per ultima, ma non meno importante, la sottomissione al servizio non dello Stato ma dei partiti. 

 

E siccome il partito dominante era sostanzialmente unico, la DC, al servizio dei suoi notabili e delle sue correnti. Alla DC si deve anche l’utilizzo in questo settore di personale legato a filo doppio col vecchio regime fascista. 

 

Come al solito, poi, il massimo della corruzione al loro interno fu introdotto dalla modernità. Quando cioè cominciarono a operare direttamente per grandi modernizzatori come Enrico Mattei e per i politici (di maggioranza e di opposizione) a lui legati nella lotta alle grandi compagnie petrolifere. Lì è l’origine della politica filo-araba di parte dei nostri servizi e dei contrasti interni (Miceli/Maletti) che ne scaturirono.

 

(«Quaderni Radicali», n. 52-53, gennaio / aprile 1997)

 

 


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