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23/11/24 ore

Her, l'amore visionario di Spike Jonze


  • Florence Ursino

Una ‘forma di follia socialmente accettabile’, l’amore. L’amore. Che partorisce poesia, suona i tramonti, irrobustisce le gambe, inonda gli occhi, schiude le labbra. L’amore che non ha passato né futuro, non conosce tempi, non sa di spazio e materia, non si cura di noi. 

 

Così Theodore, gli occhi grandi e malinconici e un divorzio che non riesce ad affrontare, riscopre l’amore nel suo orecchio: in un mondo in cui l’essere umano e l’essere tecnologico vivono in simbiosi, sarà la voce di un sistema operativo a guidare l’uomo attraverso il buio corposo che dalla mente va al cuore e viceversa, lì dove l’immaginazione non ha pareti di carne.

 

Perché l’amore muta, cambia, fa sussurrare Spike Jonze alla sua ‘Her’, e il cinema può ancora raccontarlo. Lui può ancora raccontarlo, e il suo ultimo film ne è l’esempio lampante.

 

Jonze afferra tra le mani ancora una volta le relazioni umani e le modella, lentamente, giocosamente, dà loro una nuova, sinuosa forma, mai uguale, mai convenzionale: ‘Her’ è romanzo, è palcoscenico, è dipinto, è teoria, formula.

 

La storia d’amore tra Theodore (Joaquin Phoenix) e l’intelligenza artificiale Samantha attraversa il tangibile e il visibile, oltrepassa la realtà e di essa si nutre – di gelosia, dolore, gioia, paura – partorisce un sentimento puro e impossibile secondo i canoni del mondo fisico. Non resta che lo schermo completamente nero mentre il virtuale fa l’amore con il materiale in un amplesso erotico ai confini della realtà, lì dove l’immaginazione spoglia e sfiora, lecca e penetra.

 

Samantha (Scarlett Johansson), nata sistema e cresciuta donna, non è solo un prodotto dell’uomo, ma una creatura complessa, in continua, imprevedibile, incontrollabile evoluzione: non si può arrestare la metamorfosi, non si può modellare un’emozione, non si può semplificare la complessità.

 

E non si è mai lì, in quegli ‘spazi bianchi’ tra una parola e un’altra di un grosso libro, lì dove l’uomo non può arrivare e l’artificio tecnologico – forse – sì, lì dove la comprensione umana non ha valore, lì dove si rintana l’amore che non si può spiegare.

 

Jonze spalanca lo sguardo su un universo sensoriale e visionario da cui essere illuminati e riscaldati fino ad arrivare ad una piena consapevolezza di sé, del proprio cambiare pelle e sangue, costantemente: il tutto attraverso una messa in scena straordinaria, a tutti i livelli.

 

Il mondo di Theodore è specchio, vetro, acciaio, è materia del futuro intrisa dei colori caldi e saturi (gialli, arancioni, rossi) del passato; è il mondo in cui lo strepitoso protagonista si muove in perfetta sintonia: Joaquin Phoenix, fulcro della parte visiva del film, è il volto dell’Uomo su cui imprimere il significato del film, è il corpo chiamato a contenere l’evoluzione; lui è la tabula rasa su cui comporre il film, è il silenzio che accoglie la Voce. Lei, quei suoni nati da un chip e interpretati da una Scarlett Johansson invisibile e, probabilmente, proprio per questo più potente della sua stessa immagine.

 

Insieme, Theodore e Samantha, comporranno una melodia perfetta nella – e per la – sua imperfezione, e stiamo lì ad ascoltarla, ad ascoltare la storia di quell’amore che salva e si rintana lì, a million miles away.

 

 


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