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23/11/24 ore

Lo scheletro lucente de ‘I corpi estranei’ al Festival del Film di Roma


  • Florence Ursino

Un uomo va a Milano per curare il suo bambino malato di cancro; nella stessa clinica un ragazzo tunisino è al capezzale di un suo connazionale. Due realtà diverse, due età diverse, due umanità distanti innestate in un unico film in cui scorre la linfa di una convivenza forzata, di un avvicinamento lento e sofferto, del razzismo di cui si ha timore di parlare, ma che si rivela in uno sguardo. 

 

Il cinema italiano sbarca al Festival con ‘I corpi estranei’ di Mirko Locatelli: una pellicola interessante, radicale quasi nel suo approccio scarno alla storia, nella scelta di bandire ogni orpello dall’impianto narrativo.

 

Locatelli prende di mira un tema, quello dell’altro - di un muro invisibile fatto di convinzioni, odori e pregiudizi - e lo sviscera con cautela, mai forzando la mano, ma lasciando ad Antonio (Filippo Timi) il tempo di guardare di sottecchi, di seguire in silenzio, di piangere sotto la doccia, di smussare un angolo di mente.

 

La diffidenza non si sgretola facilmente, ma la goccia dell’accettazione, della comunicazione, può erodere e ammorbidire. Il problema sorge quando questo graduale processo è documentato nel suo dilatarsi lento e microscopico: va bene riprendere il reale per ciò che è, ma a volte è necessario andare oltre la naturalità di un gesto o di un’azione, bisogna alimentarla, la drammaturgia, bisogna mitigare l’austerità della rappresentazione.

 

Locatelli rimane invece rigido sulla sua scelta di non romanzare la messa in scena, perdendo purtroppo la corposità necessaria per attrarre il pubblico e infrangere quel silenzio che diventa insopportabile nei 98 minuti della pellicola.

 

Non basta (un bravissimo) Filippo Timi, non basta un uomo che guarda spaventato e rabbioso gli arabi ‘che puzzano’, che fuma una sigaretta dopo l’altra, che aspetta davanti a una macchinetta il caffè ‘equo e solidale’ con più anima di lui, non basta un bambini piccolo e indifeso tra le braccia di un padre astioso nei confronti di una cultura che non capisce e che rifiuta.

 

La normalità sa essere forte, emozionante, disperata, speranzosa: ma non basta spremerne il succo per restituirla a bocche bramose di emozione, serve (rac)coglierla con attenzione e cura, esaltarne la forma, prendersi cura dei dettagli. Locatelli si è invece dedicato così tanto al soggetto da dimenticarsi di tutto il resto, offrendo allo spettatore lo scheletro lucente di quello che sarebbe potuto essere un corpo più vicino e meno estraneo.

 

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