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27/12/24 ore

Acrid, le prigioni mentali di affetti instabili al Festival del Film di Roma


  • Florence Ursino

Spietato, aspro realismo: al Festival Internazionale del Film di Roma è il momento dell’Iran, è il momento di tornare, ancora una volta, ad assaggiare l’amara condizione delle donne in una società che, pur essendo sulla via della transizione, vive di prigioni e soprusi. Ma è anche il momento di soffermarsi sull’ineluttabilità del consumarsi delle emozioni, delle relazioni, dell’amore ‘tradizionalmente’ inteso.

 

‘Acrid’, dell’esordiente Kiarash Asadizadeh, racconta la crisi di alcune coppie attraverso il comune destino di 4 donne legate a doppio filo a dei mariti che non amano più, che non le amano più, ma da cui non riescono a rifuggire a causa di un qualcosa di profondamente radicato in loro.

 

Nonostante le protagoniste della pellicola abbiano infatti la possibilità di non subire in maniera totalmente passiva la meschinità, la violenza, l’insensibilità dei loro uomini, rimangono comunque intrappolate nel cerchio di una cultura il cui seme avvelenato pare germogliare dentro loro stesse, prima ancora che nella società misogina e ipocrita di cui fanno parte.

 

E proprio per questo, forse, le donne di Asadizadeh sono ancora più frantumate, più fragili, più immobili, paralizzate dalla paura di abbandonare - anche a ragion veduta - l’isola sicura, seppure sterile e pericolosa, che il matrimonio rappresenta.

 

Attraverso un impianto narrativo circolare, il regista iraniano ci presenta dunque il suo mondo, fatto di solitudini e abbandoni, di prigioni mentali, prima ancora che fisiche: tutti i personaggi femminili sono rappresentati e seguiti – macchina a mano e camera instabile come le relazioni e gli affetti che si vuole raccontare - attraverso specchi, vetri, bloccate tra pareti, porte o inferriate, ma senza forzature e senza eccessivi simbolismi.

 

Asadizadeh documenta con naturalezza e fluidità un disagio che si propaga da una coppia a un’altra, da una donna a un’altra, suggerendo l’impossibilità di agire, di mutare il concetto di unione in un mondo che non è ancora pronto al cambiamento. E lo fa con maestria e sobrietà, attraverso dialoghi credibili e una fotografia pulita, fredda e scura come i suoi personaggi, come i sentimenti raccontati.

 

L’unica pecca è forse da attribuire ad una sceneggiatura un po’ debole, meccanica, poco incisiva rispetto all’urgenza che traspare nella scelta di puntare l’occhio accusatore – e rivelatore - del Cinema su una realtà che continua ad urlare in silenzio.

 

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