Ieri, nella giornata del 21 marzo dedicata all'ingresso freddo della Primavera avvelenata, e alla Poesia, innumerevoli i riferimenti a Leopardi (e a L'Infinito, scritto nel 1819, a ventun anni).
POESÌ di Rino Mele
Il suicidio pensato di Leopardi e L'Infinito
A metà del testo (quasi un sonetto) due parole si fronteggiano, il passo
fermo di un duello: la prima è debole
e gloriosa, eroica, coi moncherini della disperazione
alzati contro il cielo
per sopravanzarne il confine, e il nulla.
È "io" questa parola, un pronome: lo spago corto che s'attorciglia e
nella trappola per topi scompare,
il respiro incompleto che ha bisogno di uno specchio per uno
sconvolto volto,
e l'irresistibile affanno.
Nella leggerezza del pensiero e nello strazio, l'io costruisce macchine
enormi come carceri, spazi, silenzi, la quiete
delle macerie.
Al verso successivo, l'ottavo, l'altra parola è "vento", interpreta quel
silenzio, il poco che possiamo saperne, vento
è anche il linguaggio, l'articolazione dei suoni, il gioco
dei versi, la trama
che resta della storia. I quindici versi dell’Infinito, questo
stravolto sonetto, sono il torneo di morte e di gloria di un giovane di
ventun anni, che dice due volte "io",
enumera le sue schiere, le ordina a battaglia, sa di scontrarsi con il
vuoto che urla e non appare, l'indefinito mutare.
Intanto, il mare già lo minaccia col suo protervo soverchiare, il
giovane condottiero
è seduto per terra, preso dalla tortura di guardare e, piccolo suicida,
finisce con l'annegare.
Fuori dal regno ostile degli oggetti,
e dell'enumerazione del reale, non gli resta che il protervo fascino delle
larve più concreto di una conflagrazione
universale, s'uccide nel pensiero,
"l'eterno / e le morte stagioni, e la presente" senza respiro
canta. S’uccide
e si guarda morire,
è così dolce finire, dirselo in versi, quando si sa che è una finzione
non più vera della vita. L'enigma
è nascosto al tredicesimo verso, nella preposizione "tra", riferita a un
concreto aggettivo determinativo singolare, "questa",
e a una parola astratta, "immensità" che lui, con quel "tra", divide a
metà, tra i pensieri e il reale.
Nella finzione che crea, e inganna, costruisce il suo naufragio e muore.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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