“Tripoli, bel suol d’amore” è una canzone patriottica del 1911, l’anno in cui (il 5 ottobre) le truppe italiane sbarcano a Tripoli: “Sai dove sorride più magico il sol? Sul mar che ci lega con l’Africa d’or”. È la retorica bugiarda che farà da sfondo a tutta la nostra tardiva pratica colonialista, iniziata nel 1882, fino al grottesco delirio dell’impero. Ora, insieme alle altre nazioni europee colpevoli di uguali scempi, ne paghiamo un’amara pena.
POESÌ di Rino Mele
Tripoli, bel suol d’amore
Come un animale nella gabbia che lo stringe,
e gli fa male,
Omar al-Mukhtar fu impiccato il 16 settembre 1933. Graziani avvelenava
I pozzi, nei solchi alti di
sabbia seminava il terrore, la città di Kufra fu spaccata come
una pietra con altra pietra,
legò il deserto al vento col filo spinato, gli uomini imprigionati, distratti
a se stessi, le donne violate. Mukhtar
è impiccato,
rimane fermo nell'aria. I beduini gli giravano intorno da lontano,
sperando si muovesse,
quel poco che è concesso ai morti.
Se dal suo balcone il vicino può guardare nella tua stanza,
basta per il tuo odio e l'invidia, la pretesa
di sottometterne l'ombra.
La Libia ricorda ancora i nostri piedi sul suo cuore, noi
e la Turchia a contenderle l'anima, la nostra impaurita ferocia che seppe
instaurare il terrore. La guerra
si riprodusse come nei frammenti di uno specchio
spezzato, Badoglio e Graziani grandeggiavano in uno stanco arazzo,
i cavalli alti nel nitrito disegnato.
in Cirenaica Graziani inventò i campi di concentramento,
nel Gebel Akdar rimasero vuote
le case. Eravamo appena usciti da una guerra (e il sangue era piovuto
come un diluvio) ed ecco, in assoluta continuità,
riprendevamo il gioco della violenza: la guerra in Libia fu l'orlo alla veste
della prima guerra mondiale, lo tessemmo
mentre il Fascismo si preparava all’idolatria di se stesso: svuotammo e
riempimmo fantasmi,
era la guerra facile, modellava
i pensieri nella violenza teatrale delle marionette col fez, il manganello,
il passo geometrico dello stivale.
Il fascismo nasce da una guerra che termina mentre un'altra riappare e
altro sangue richiama: il dolore
della tragedia, e la farsa della conquista coloniale.
Il generale Haftar ora avanza da Bengasi verso Tripoli, le tribù armate e
disseminate, pronte a esplodere, o a lasciare che la storia scorra al
contrario e risalga dal mare.
Nell'Africa martoriata, l'Europa
ha portato la corruzione, disegnato la sua suburra, il mercato
dell'innocenza e del male,
lo strazio. Ora, alza gli occhi al cielo, le braccia,
la voce,
si scorda d'avere insegnato alla vittima a gridare - secondo il ritmo d'uno
strano ballo - un’inconsumata
agonia, il freddo che la colpa nutre e non appare.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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