Questo testo è l'elaborazione di L'aceto e le donne che guardano da me pubblicato inCostruzione della rima, Plecticà 2010. Il riferimento è alle ultime pagine del Vangelo di Marco (XV,40). Cristo è crocifisso, ne muore gridando, ma da lontano - come fossero vicine - innumerevoli donne ne spiano lo strazio, testimoniano l'assurdo che sono abituate a sopportare, a riconoscere nella loro quotidiana tortura, la guerra che non si placa e solo cambia maschera (“Erant autem mulieres de longe aspicientes”).
POESÌ di Rino Mele
Le donne che guardano
L'aceto gli corre sul volto, punge.
Lontano, una moltitudine di donne sulle pietre, ne spiano
la morte, guardano
ciò che non sono, estranee a quel tragico torneo - tra gli uomini e un Dio - nel doppio spazio del cielo
e del Golgota: l'agone mostruoso in cui, a metà
del giorno, Cristo
coperto di sangue, l'aceto negli occhi, ripete un grido
fino al silenzio.
Gli uomini storditi
a salire e scendere scale, ficcare lance nei corpi, storcere un volto
nelle tenaglie, spingere spine in un cranio,
inventare torture, inchiodare,
legare, scollare le ossa, togliere l'aria
al respiro.
Le donne guardano chiuse negli occhi, in testa scialli di terra rossa,
del catrame spento
delle rose.
Al terzo giorno, sulla pietra vuota
il racconto dell'angelo ad altre donne, lievi, con gli unguenti
e le bende, e l'acqua
col profumo dei fiori, e la paura – tremor
et pavor - per il corpo amato
che non c'è più.
Per medicarne la pena, Cristo, il giorno dopo, da una di loro volle farsi vedere, lavato di cenere come un panno
nella liscivia, così vicino
che violava il pudore,
gli occhi entravano negli occhi e, dietro, gli veniva
l'ululato dei morti.
Parlarono come nei sogni, quando le parole mostrano volti dipinti, e il loro suono - quasi i tuoni d'estate - viene
da lontano, e ritorna.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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