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12/10/24 ore

POESÌ di Rino Mele. Le sette stanze del labirinto



I settantadue versi che oggi pubblico non li ho (come di solito) appena scritti ma li traggo dal mio libroCostruzione della rima, edizioni Plecticà, del 2010. Il tema è il labirinto, diventato sempre più il segno della nostra immatura coscienza. Nei suoi corridoi ossessivi rinchiudiamo il nostro vicino, l’ombra che urta contro il nostro confine, le paure cui non sappiamo dare un nome. E ci scordiamo che, al centro di questo luogo senza uscite, siamo noi stessi - Dedalo e Minotauro insieme - ignari della nostra infera condizione. Sullo sfondo, la disperante figura paterna di Minosse.

 

 

 

 

 

 POESÌ di Rino Mele

 

 

Le sette stanze del labirinto

 

Una stanza se v’entri puoi non uscirne mai,

le finestre coperte di brina, o è calce

sulle pietre, non ha soglia e non c’è ritorno

che vale, urti contro il portale, ti senti

smagrire nel forzare i cardini

arrugginiti, le sbarredi ferro, quel legno

che sembra un bosco e non si lascia

attraversare. È la perfezione

di un quadrato, ma se ti distendi - le braccia

lungo le gambe, il volto

in alto a guardare quell’unica lampada - allora

ti pare che sia il rettangolo

di una madia, una bara,

la custodia di un misterioso strumento

musicale. Non ha tetto

nè pavimento, ti reggi a stento sulle sue

travi, sai che sprofonderesti

se dovessi muovere un piede quando

dovrebbe saldamente stare,

o fermarti per paura

d’inciampare. La stanza ora scompare.

Nella successiva, grandi finestre

e, per terra, un mare di plastica, le onde

costrette le une nell’altre, fitte

come gridi, come

le spighe della corona di Anfitrite.

Si dissolve, e la terza è nera, le pareti

curve di un pozzo,

ti si avventa contro un gatto

selvatico, ti morde il volto. La quarta

stanza è una fune che chiude

un prato, c’è l’acqua di una sorgiva,

una donna ti bacia

con la saliva di una lumaca, si stende

sulla riva, chiude i tuoi occhi

di baci, ti chiama padre,

figlio (e in mezzo a quel labirinto,

la barba bianca, il cappello nero, il libro

dell’Apocalisse aperto dove

sullo scoglio delle locuste t’infrangi,

e le sazi). La stanza d’acqua

annega, ora sono chiuso in un pugno

d’ossa. Respiro a stento, vorrei

parlare allo specchio, sentire ancora

la mia voce, sapere

che qualcuno mi guarda, odia,

desidera i miei giochi, gli anagrammi

dell’amore, il nascondino

degli occhi, i quattro cantoni delle mani,

la rincorsa nel recinto dei corridoi

dove le danzatrici

si sperdono e un vitello è legato

al centro di una cella, luna

park, giostra, scivolo di cartapesta,

bottoni strozzati

da un contorto refe. Poi, una lunga

isola, come un’ellisse,

un’aiuola arida di filo spinato,

un letamaio prosciugato, è la sesta

triste stazione. La successiva

non ha nome, né luogo,

sembra il respiro di un pazzo

rassegnato, lo sguardo

stretto tra le dita, il grido afono,

l’orrore mischiato al sonno, lo sforzo

vano di svegliarti e quel tonfo,

il cadere in altro sonno, e ancora,

fino a raggiungere in un piccolo bacile

- le forbici chiuse sulle forcine,

il coltello, il forcipe - l’urina

bianca e il sangue, l’aceto, la pioggia 

notturna, l’acqua che sa di sale.

 

 

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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.

 

  

 

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