I settantadue versi che oggi pubblico non li ho (come di solito) appena scritti ma li traggo dal mio libroCostruzione della rima, edizioni Plecticà, del 2010. Il tema è il labirinto, diventato sempre più il segno della nostra immatura coscienza. Nei suoi corridoi ossessivi rinchiudiamo il nostro vicino, l’ombra che urta contro il nostro confine, le paure cui non sappiamo dare un nome. E ci scordiamo che, al centro di questo luogo senza uscite, siamo noi stessi - Dedalo e Minotauro insieme - ignari della nostra infera condizione. Sullo sfondo, la disperante figura paterna di Minosse.
POESÌ di Rino Mele
Le sette stanze del labirinto
Una stanza se v’entri puoi non uscirne mai,
le finestre coperte di brina, o è calce
sulle pietre, non ha soglia e non c’è ritorno
che vale, urti contro il portale, ti senti
smagrire nel forzare i cardini
arrugginiti, le sbarredi ferro, quel legno
che sembra un bosco e non si lascia
attraversare. È la perfezione
di un quadrato, ma se ti distendi - le braccia
lungo le gambe, il volto
in alto a guardare quell’unica lampada - allora
ti pare che sia il rettangolo
di una madia, una bara,
la custodia di un misterioso strumento
musicale. Non ha tetto
nè pavimento, ti reggi a stento sulle sue
travi, sai che sprofonderesti
se dovessi muovere un piede quando
dovrebbe saldamente stare,
o fermarti per paura
d’inciampare. La stanza ora scompare.
Nella successiva, grandi finestre
e, per terra, un mare di plastica, le onde
costrette le une nell’altre, fitte
come gridi, come
le spighe della corona di Anfitrite.
Si dissolve, e la terza è nera, le pareti
curve di un pozzo,
ti si avventa contro un gatto
selvatico, ti morde il volto. La quarta
stanza è una fune che chiude
un prato, c’è l’acqua di una sorgiva,
una donna ti bacia
con la saliva di una lumaca, si stende
sulla riva, chiude i tuoi occhi
di baci, ti chiama padre,
figlio (e in mezzo a quel labirinto,
la barba bianca, il cappello nero, il libro
dell’Apocalisse aperto dove
sullo scoglio delle locuste t’infrangi,
e le sazi). La stanza d’acqua
annega, ora sono chiuso in un pugno
d’ossa. Respiro a stento, vorrei
parlare allo specchio, sentire ancora
la mia voce, sapere
che qualcuno mi guarda, odia,
desidera i miei giochi, gli anagrammi
dell’amore, il nascondino
degli occhi, i quattro cantoni delle mani,
la rincorsa nel recinto dei corridoi
dove le danzatrici
si sperdono e un vitello è legato
al centro di una cella, luna
park, giostra, scivolo di cartapesta,
bottoni strozzati
da un contorto refe. Poi, una lunga
isola, come un’ellisse,
un’aiuola arida di filo spinato,
un letamaio prosciugato, è la sesta
triste stazione. La successiva
non ha nome, né luogo,
sembra il respiro di un pazzo
rassegnato, lo sguardo
stretto tra le dita, il grido afono,
l’orrore mischiato al sonno, lo sforzo
vano di svegliarti e quel tonfo,
il cadere in altro sonno, e ancora,
fino a raggiungere in un piccolo bacile
- le forbici chiuse sulle forcine,
il coltello, il forcipe - l’urina
bianca e il sangue, l’aceto, la pioggia
notturna, l’acqua che sa di sale.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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