Stiamo trasformando una grande occasione e opportunità estrema, in confuso balbettìo, pcomunicazione imprecisa, precipitoso ritorno a un linguaggio autoreferenziale in un'immedicabile solitudine: esaltazione di un ripetitivo gioco con se stessi nell'agonia dell'orizzonte politico.
POESÌ di Rino Mele
Lo smartphone e la fatica di scrivere nel palmo della mano
Tornare al gioco acre dell'infanzia quando
sporcarsi con macchie d'inchiostro
e disegnare
era lo stesso sublime creare. Quel vecchio gioco si deforma e
incrudelisce
se balbettiamo - su un misterioso
smartphone - la fatica di scrivere nel palmo della mano,
ricevendo da noi stessi risposte
impudiche, sillabiche,
rintanati come lumache nel guscio di un linguaggio devastato, la
prigione
che parliamo,
i cavi tesi della tortura in cui scompostamente
segnaliamo la nostra fine. Abbiamo abdicato alla voce,
come gli altri, tutti, scomparsi, divorati da
innumerevoli "io": è un circuito orrendo di godimento in cui
ripetiamo (stiamo
sempre a ripetere) il nostro bisogno
di saperci vivi
facendo del male.
Le nostre dita spezzate simulano una voce muta, nel sonno da
cui non ci liberiamo
svegliandoci, scrivono frammenti di ingessati discorsi,
ci disorientano, spingono
verso un dolce burrone, su uno scivoloso limite d'erbe.
È un testardo parlare coi morti: che sono sempre lì, fermi
nella bottiglia vuota posata sul camino, o interrata in un'aiuola,
è quella la loro piccola chiesa, la miniaturizzata
pena, l'archivio delle parole dette
e dimenticate
che tornano, col volto bruciato, senza suono
nel muoversi inavvertibile delle formiche.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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