Sulla nostra paura di ciò che viene dai luoghi scuri dei morti, residuo di antichissime credenze devastanti che i nostri sensi di colpa amplificano, Freud, in Totem e tabù(1913) cita una proposizione di Rudolf Kleinpaul: “I morti uccidono”. Nei quaranta versi di questa settimana, scritti per Agenzia Radicale, ho voluto rappresentare la nostra totale appartenenza al mondo degli scomparsi, e di essi al nostro, l’assenza di un ragionevole confine.
Il riferimento a Magritte evoca una sua opera del 1953, "Golconda", in cui una serie infinita di uomini vestiti di scuro, con cappotto e bombetta neri, sembra - come una pioggia - scendere dall'alto o risalire, occupando tutta la superficie del quadro. Sullo sfondo, alcuni palazzi che potrebbero essere quelli di un sobborgo di Bruxelles.
Infine, l’immagine della trottola cui - attraverso uno spago che velocemente si srotola - il ragazzo che gioca imprime una sorprendente velocità. In molti paesi del Sud è lo “strummolo”.
POESÌ di Rino Mele
Noi rimasti a penare
Siamo vivi solo da morti, nel pensiero di chi ci ama
o non riesce a dimenticare
questo nostro volto disuguale, il parlare nell'inciampare ostile del
discorso, l'arrestarsi improvviso
di un difficile pensare. Ma più spesso, dimenticandoli, uccidiamo
i morti
e, come nel gioco
di due trapezisti rivali,
siamo uccisi da coloro che non ci sono più e pensiamo stiano ancora a
pensare
al male
che ci siamo scambiati un giorno, la mano
nella mano distorta, lo sguardo rivolto indietro.
Come nella pioggia di uomini disegnati da Magritte, siamo tutti sospesi
(non si sa
chi scende o sale): per i morti siamo noi gli scomparsi, rimasti in
quest'inferno a penare l'orrore di un corpo
che non accetta di essere pensato, allontanato, distratto
dal vitale cieco pulsare
che è il morire in ogni istante, quando le
palpebre s'abbassano, per subito riaprirsi, e ricostruire il respiro).
Chi resta, porta una maschera lieve
che gli viene strappata
da una mano
che non vede. C'è un pianto intorno,
dovremmo scordare il nostro nome per ricominciare - dal
silenzio -a parlare, riconoscere
i suoni, urtare, colpire
piano, battere la superficie di una pietra con altra scheggiata pietra,
aspettare
come dovesse qualcuno tornare.
Un continuo tirare la corta corda dell'essere, lo stare con gli altri, con
quell'altro,
sempre presente e ingombrante (che identifichiamo
con noi stessi) e ha il volto girato
al contrario, il muso d'asino storto dal raglio
dell’invidia, la gelosia della vita.
La trottola è ferma, fissata nel fiume calcificato del tempo.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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