È accaduto in via Macallè a Cosenza, Rayem, di tre anni, tunisino (il padre è dal 1995 in Italia), per essersi avvicinato a un bambino ancora più piccolo nella carrozzina guidata dai genitori, è stato dal padre di questo preso a calci con parossistica violenza, "urlando si è avventato sul bambino, lo ha strattonato, e poi gli ha sferrato un calcio all'addome". Da rimanere impietriti: "Ho visto il piccolo fare un volo di due metri" racconta una ragazza che ha assistito all'aggressione (ed è "Repubblica" del 7 settembre a riportare la testimonianza").
In Che cos'è la guerra, l'ultimo libro di Domenico Quirico, appena edito da Salani, è descritta l’allucinata visita a una delle prigioni libiche in cui sono chiusi e sconciamente ammassati i migranti che attraversano la Libia. Molti ne muoiono. "I morti vengono gettati nelle immondizie".
POESÌ di Rino Mele
Via Macallè
Su ogni rettangolo di terra è scritto
un numero, un nome, non può passarvi nessuno,
anche la pioggia
vorremmo si fermasse a quel confine prima di scrosciare.
È un tunnel aperto, vi corrono volpi che non riesci a catturare mentre gli uccelli
s'impigliano nelle alte reti, il becco spezzato
a svolare (finiscono nel cesto con cui il padrone
s'appressa).
Infiniti rettangoli - il mio e il tuo - si moltiplicano, scambiano
il posto
e il nome. Ci danno dolore. Tra i fischi dei ragazzi, a dirupo
sulle colline, i muri s'alzano
fino alle nubi,
si muovono ad onda con complici pozzi, sembrano
verticali
tetti capovolti.
Di notte s'aprono incendi
che bruciano le parole, il delirio.
Continuiamo a toglierci l'un l'altro dalle mani
il nulla che stringono le dita,
increduli
di non saperci allontanare nemmeno dall'ombra
che diciamo nostra, dall'osceno
legame d'appartenenza che subito
stabiliamo con le cose, la loro estraneità rubata al silenzio.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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