Pochi giorni fa, il 2 ottobre, a Vallo della Lucania nel Cilento, una giovane donna ha chiamato il 118. L'hanno portata in ospedale. Nella sua abitazione (viveva sola e la sua professione era quella di badante), in un armadio è stata scoperta una valigia, dentro v’era una grossa busta di plastica, in essa delle asciugamani e in quelle il corpo morto di un bambino appena nato. Cosa rimane di noi nello sguardo di un altro? Siamo "come il pezzo di muro rimasto in piedi dopo lo scoppio di una bomba", dice Philip Roth in "L'animale morente", 2001, parlando di un suo personaggio, George, ancora vivo della sua morte inconsumata.
POESÌ di Rino Mele
La valigia vuota
La bocca s'apre in mezzo al viso, sembra di
gomma, ingoia, sputa, dice
parole,
ha baciato (anche per gioco) tante volte, e vomitato altre. Il corpo
invece è nascosto,
coperto, come fosse di un altro,
o già morto. È quell'urlo afono prima della nascita
cui non apparteniamo più: desidera
desiderato, ha paura
d'essere colpito, assassinato,
cerca un notturno mare per farsi dimenticare.
La bocca rivela quello che il corpo
non sa (bevi troppo in fretta l'acqua che ti scorre sul mento,
vorresti parlare, bere e respirare, poi la paura
t'invade, fuggi,
uccidi,
torni indietro a vedere
quel che resta di te
nel volto che minacciava ridendo).
Dalla bocca nascono i pensieri, le parole, il suono che
trattiene il discorso,
lo storce
nella voce. Poi diventa muta se il dolore la chiude
in un muro di calce.
È così antico il gesto di questa donna che ha messo nella valigia
il proprio corpo e quello
del figlio da uccidere: un suicidio deviato col quale
rifiutiamo il delirio del rapporto verticale
da cui veniamo.
Siamo alberi ansiosi di svellere le proprie radici. Resta sul vetro
il segno
dell'inganno di una bocca, lo scuro enigma del sangue.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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