C’è uno sdoppiamento che c’insegue. Quello che saremo pare appartenga già al nostro passato.
POESÌ di Rino Mele
Il futuro in cui siamo
Vivremo di notte, avverrà presto, ci dimenticheremo
del sole, abbandonati
dalla sua luce, cammineremo
nel fascio di potenti fari dai quali non potremo uscire
senza perderci.
Avremo occhiali spessi da talpa, le mani tinte
di vernice per farci riconoscere.
Saremo finalmente meno che vegetariani, basterà
una foglia di plastica, l'esposizione a un neon azzurrino
per sopravvivere.
Faremo tutti gli stessi gesti, le parole saranno
misurate e basterà per essere compresi,
non ci sarà spazio per i compromessi di un "io" relegato nella preistoria
dei nostri corpi finalmente senz'anima. Controllati da macchine per
evitare
narcisismi vani, le oblique strade che occupano la voce
dell'altro spingendolo a soffrire.
Saremo
divisi dai morti da una parete sottile.
Intanto, nelle rade piogge tra ottobre e novembre, ci ritroviamo
accanto a una stretta porta
sul vuoto d'un burrone.
Vorremmo avvicinarci e spiare, sappiamo che sul fondo, ma
anche a mezz'aria, vi camminano i morti, sono senza
dolore,
non sanno nemmeno d'essere stati vivi,
si muovono con armonia, senza potersi urtare, riconoscersi, parlare.
Li coprono
le cicatrici di quando avevano il peso di un nome, l'attesa
di un giorno
nuovo
dopo l'infinito tunnel
delle notti, gli strazi chiari dell'alba.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud, ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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