La poesia (non il risibile scrivere in versi, che è solo un modo per segnalare l'azzardo, il rischio di una difficile scrittura ma quell'andare oltre la parola, dentro di essa) è il risalire la corrente del linguaggio fino alla carne che ancora non parla, il confuso soffrire prima della nascita, sommersi dagli spasmi di una donna che si torce, ed è la madre da cui tutto ha avuto fine, iniziando
POESÌ DI RINO MELE
La poesia come prima della nascita
Quando le parole si staccano dal corpo
e parlano a se stesse come serpi
vive,
tagliate a pezzi da un coltello - e sono le pause,
i resti del suono, lo spazio
tra le dita della mano -. Quando le parole
non paiono uscire da una bocca di carne
e lingua
e denti e la dolce
saliva che accompagna l'ansia e incolla i baci
nel sonno, ma da una pietra, venute fuori
come insetti, api nere
senza miele. Restiamo a guardarle,
meravigliati come il suono di esse
si sia fatto chiara presenza
- nuova ipostasi -
allora, in quella linea di lontana disappartenenza,
dicono ciò che potremmo udire (o anche noi
dire) solo se fossimo morti.
La poesia è lo stupore di scendere tra i morti
nella scale strette delle parole, risalire
nei loro suoni, il delirio
di ripetere corridoi in cui il muro contro cui urti
è lo stesso da cui sei entrato
correndo nel buio.
La poesia è la nascita oscura, tua madre
è la parola "madre",
le sue grida di cui sei prigioniero.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud", ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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