Crediamo di aver realizzato un’illuminata democrazia, ma votare i propri rappresentanti è solo la premessa di un processo ancora troppo lontano da un esito dignitoso e civile. Intanto, anestetizzati nella nostra impura coscienza, assistiamo al desolante orrore della guerra ereditata da padri impauriti, antichi oltre il tempo della storia, ancora-non-uomini, e mai superata: in molte decine di stati (Libia, Burkina Faso, Repubblica Centrafricana, Siria, Turchia, Yemen, Birmania) si combatte, si muore, si cattura il corpo del nemico e se ne fa strazio.
POESÌ di Rino Mele
L’osceno potere
Una grande bocca con aspri denti. Le dita
delle mani
sono serpenti come quelle dei piedi. Il potere
ha un occhio
solo, infinito e lucente, la voce gonfia
di tuoni.
Il potere non vuole essere guardato,
dev’essere lui a scrutare
negli occhi il dolore, dimenticare il nome
registrato, i volti,
il corpo appena visto, e meglio lacerargli
il cuore. Il potere
è impotenza, una scienza che non sa sillabare
l’amore, una stanza
chiusa
dove, sul pavimento, scorre un esile rivo
chiaro e si fa rosa,
è il sangue bianco del prigioniero
legato
alla parete, lo strazio verticale, l’ingiuria,
il rauco
gridare in cui è trasformato il suo pianto.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud", ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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