Nel 1995, Giorgio Barberi Squarotti pubblicò su “Astolfo”, quadrimestrale del Centro Universitario di Torino, un mio breve poema, La dolce apocalisse.
Di quei 295 versi ripropongo su “Agenzia Radicale”, con una variante, una piccola parte. In cui evoco La flagellazione di Piero della Francesca, del 1455 e, degli stessi anni, sempre su tavola , la Flagellazione del Beato Angelico, prezioso pannello dello stupefacente Armadio degli Argenti.
Rino Mele
La Flagellazione di Piero della Francesca
Ho visto
il carnefice inarcato alzare il flagello, le strisce
di cuoio rafforzate di ferro, e l’ombra
sulla colonna. Poi ho dimenticato.
Il cortile è vuoto. Non ha pareti,
passaggi segreti, tende, corridoi neri .
Freddo d’aria il loggiato
che il flagello riempie,
(la scala s’arresta,
la colonna alla quale tuo fratello è legato).
La stanza, palazzo del re ucciso
o labirinto (cur fratris vacat?),
è un campo aperto senza grano, spighe, covoni,
le falci mietono l’aria, i papaveri. La cella - il freddo
che prende il corpo - è murata, il Minotauro
l’ha divorata. Non sa di sapere se ha pianto,
vorrebbe poter vedere la corta spada
che gli s’avventa, che lenta
s’allontana e tenta per riprender forza
(il regista ripete la scena, è impreparato
alla morte dell’attore, sperava
nel personaggio, nella sua frequente
resurrezione, lo sostituirà con una comparsa
che non conosce il dramma, il dialogo
su cui cade il sipario). Beato Angelico
aveva disegnato lo stesso strazio
in un quadrato, una stanza che stringe
il soffitto al pavimento, la terra,
i segni trafitti, la tomba, un sarcofago, un letto.
I carnefici hanno il braccio alzato. La fune,
le mani a croce. Dolor meus. Non c’è nessuno
a spiare dal muro tagliato. Sulla collina
un soldato tiene ferme le scale.
Il mondo non è un teatro, è un cratere,
all’entrata c’è un portiere, un gatto
che segna sulla schiena col gesso
una croce, un segno, il numero
della tomba, un verme
che s’ingrossa nel suo colore. Margherita
uccide Faust appena le si presenta,
Mefistofele canta come Fred Astaire,
in americano. Un inquisitore cieco
cerca di tirare il sipario, chiama
a testimoniare sulla morte del professore,
non crede alla finzione, ma inciampa
e finisce sotto i piedi del diavolo che danza.
C’è un puzzo atroce, il riso
dei morti e le rose. Tra un atto
e l’altro il dramma è scordato, gli spettatori
si baciano, incastrano nella bocca del vicino
i denti malfermi, vomitano lattice amaro,
si guardano sfiniti, escono a stento, chiudono
dentro le sciarpe il vento.
Il lago è ghiacciato sul piccolo
televisore, la Pizia corre sulle mani.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud", ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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