Alle 6 di mattina di un freddo inverno, quando la notte non si è ancora rassegnata al giorno, giovedì 17 febbraio 1600, condannato dall’Inquisizione romana, Giordano Bruno è bruciato vivo. Aveva 52 anni.
Dieci giorni prima era stato dichiarato “eretico impenitente pertinace”. Dal “Giornale” dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato in Roma, possiamo leggere: “Tanto perseverò nella sua ostinazione che da ministri di giustizia fu condotto in Campo di fiori, e quivi spogliato nudo e legato a un palo fu bruciato vivo”. Ma più terrificante, nella sua stringatezza, un “Avviso” pubblicato due giorni dopo sui muri della città: “Giovedì fu abbrugiato vivo in Campo di Fiore quel frate di S.Domenico, di Nola, eretico pertinace, con la lingua in giova”.
Non posso non ricordare un mio breve poema, del 2000, “L’incendio immaginato”, edizioni 10/17, quattrocento versi dedicati alla sua filosofia e alla morte cui fu orrendamente costretto.
RINO MELE
Giordano Bruno che muore
L’alba prima della notte, le mani seppellite
nel sonno, col volto girato indietro
le madri morte
corrono con bambole di legno tra le braccia,
a fingere bambini
appena svegli - sbalzati
in aria dai loro gridi - nell'incubo
che si ripete: le zampe vicine di un cavallo che ulula
(o è un lupo con la criniera)
nel buio. Sfigurati
dall'inchiostro,
emergono come tarme i morti, nella nostalgia
del dolore, chiedono
ancora la tortura, il volto ferito dal freddo,
le mani nelle morse
di ferro a spezzare le dita, l'urlo che ricaccia
il risveglio
nel sonno. Giordano Bruno bruciava
per uscire dalla vita, gli astri giravano veloci
intorno, le fiamme gli strappavano
la carne, sentiva
i suoi pensieri liberarsi dalla prigione in cui un re
(o era un cardinale?)
straziava
le parole di un condannato torcendogliele
nella bocca
perché le riprendesse a pensare. Poi, il dolore
fu così aspro
che non lo sentì più: cercava
la porta del sonno
ma anch’essa ardeva, era rimasto solo,
a orrendamente bruciare. Sentì
nell’irrespirabile vento
il fruscìo della veste di sua madre,
gli era accanto sul rogo, lei,
Fraulissa,
a sottrargli, come in un gioco, il delirio
e il niente: un morso da cavallo gli straziava
la bocca - le labbra
nel sangue - e sorrideva.
Mentre Fraulissa col suo nome lo divorava,
Bruno pensava
la parola
che lo pensava: forse non era ancora nato e
in quella fine
tutto stava per cominciare.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud", ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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