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24/11/24 ore

POESÌ di Rino Mele. Giordano Bruno che muore



Alle 6 di mattina di un freddo inverno, quando la notte non si è ancora rassegnata al giorno, giovedì 17 febbraio 1600, condannato dall’Inquisizione romana, Giordano Bruno è bruciato vivo. Aveva 52 anni.

 

Dieci giorni prima era stato dichiarato “eretico impenitente pertinace”. Dal “Giornale” dell’Arciconfraternita di San Giovanni Decollato in Roma, possiamo leggere: “Tanto perseverò nella sua ostinazione che da ministri di giustizia fu condotto in Campo di fiori, e quivi spogliato nudo e legato a un palo fu bruciato vivo”. Ma più terrificante, nella sua stringatezza, un “Avviso” pubblicato due giorni dopo sui muri della città: “Giovedì fu abbrugiato vivo in Campo di Fiore quel frate di S.Domenico, di Nola, eretico pertinace, con la lingua in giova”. 

 

Non posso non ricordare un mio breve poema, del 2000, “L’incendio immaginato”, edizioni 10/17, quattrocento versi dedicati alla sua filosofia e alla morte cui fu orrendamente costretto.

 

 

 

 

RINO MELE

 

 

Giordano Bruno che muore

 

L’alba prima della notte, le mani seppellite 

nel sonno, col volto girato indietro 

le madri morte 

corrono con bambole di legno tra le braccia,    

a fingere bambini 

appena svegli - sbalzati

in aria dai loro gridi - nell'incubo 

che si ripete: le zampe vicine di un cavallo che ulula 

(o è un lupo con la criniera) 

nel buio. Sfigurati 

dall'inchiostro, 

emergono come tarme i morti, nella nostalgia 

del dolore, chiedono 

ancora la tortura, il volto ferito dal freddo, 

le mani nelle morse 

di ferro a spezzare le dita, l'urlo che ricaccia 

il risveglio 

nel sonno. Giordano Bruno bruciava 

per uscire dalla vita, gli astri giravano veloci 

intorno, le fiamme gli strappavano

la carne, sentiva 

i suoi pensieri liberarsi dalla prigione in cui un re 

(o era un cardinale?) 

straziava

le parole di un condannato torcendogliele 

nella bocca 

perché le riprendesse a pensare. Poi, il dolore 

fu così aspro 

che non lo sentì più: cercava 

la porta del sonno 

ma anch’essa ardeva, era rimasto solo, 

a orrendamente bruciare. Sentì 

nell’irrespirabile vento 

il fruscìo della veste di sua madre, 

gli era accanto sul rogo, lei, 

Fraulissa, 

a sottrargli, come in un gioco, il delirio 

e il niente: un morso da cavallo gli straziava 

la bocca - le labbra 

nel sangue - e sorrideva. 

Mentre Fraulissa col suo nome lo divorava,

Bruno pensava 

la parola 

che lo pensava: forse non era ancora nato e

in quella fine

tutto stava per cominciare.

 

 

 _________________________________________ 

 

 

Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud", ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.

 

 

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