Sono 54 versi, appena scritti per "Agenzia". Tra gli altri temi, parlo della nostra più grande e liberatrice risorsa che è il linguaggio, ma lo stesso linguaggio si riconduce e consuma in altro che lo supera vanificandolo. Mi piace citare l'assioma del quarto libro dell'Ethica di Spinoza (1677): "Nessuna cosa singolare è data nella natura, senza che ne sia data un'altra più potente e più forte (...) dalla quale quella data può essere distrutta", a qua illa data potest destrui.
Rino Mele
Il muro
Nessun animale può conoscere il proprio volto. Per figurarcelo
parliamo,
e la voce rassicura che davvero ci siamo. Come i bambini,
che gridano
contro un muro per sentire l'eco tornare: contrastiamo
con gli altri, noi - come loro - muri
contro cui giocare.
Disorientati, costretti al linguaggio che non sa dire il nostro pianto
o il piacere
che proviamo ripetendo il gesto dimenticato. Cerchiamo la madre
morta,
sepolta, con lei formiamo una "T" capovolta, lei fredda come la soglia,
la rena calpestata
cercando la sua immagine disperata, che continuiamo a perdere,
e inutilmente invocare.
Ne ripetiamo
il nome, iniziamo una danza con l'ombra, per ritrovarla
in quel dolore.
C'è un vuoto ostile negli innumerevoli corpi
che evitiamo, contro cui urtiamo, senza volto, muri sempre nuovi
con illusorie
porte disegnate. Spezzati
tra il sonno dolce e l'incrudelire
delle colpe.
Quando il vento stringe, s'incurva e, distendendosi urla, allora
appare
sul tetto di una casa lontana, una barca, una piccola giraffa,
un cane,
la donna che sta ad aspettare.
Un corpo
è travolto dal fiume, tutti si fermano a guardare. Lontane
le urla
cui lo inchiodano le onde, il tribunale è chiuso, la prigione
divelta,
la colonia penale è un campo vuoto coi solchi, come canali,
che aspettano d'asciugare.
Rimane
la colpa dei poveri,
sulle due rive,
il silenzio e gli occhi sbarrati del morto.
Nella piazza dov'è stato portato, illividito s'alza, s'allontana
in più direzioni,
mentre i fanciulli saltano nei giochi di vertigine, gridano
ingiurie al vento.
Le parole
sono tutto quello che abbiamo, i corpi un delirio che presto
scompare: dico "leone"
ma sento che niente di quel vano suono può restare.
Oltre la voce appena pensata,
non sappiamo come quel dolore si possa dire.
Ripeto ancora
"leone" e già non so
quello che dico: nel buio sprofonda, gli parlo come a mio padre
e, come mio padre, lo perdo nell'abisso che s’apre.
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Rino Mele (Premio Viareggio Poesia 2016, terna finale con “Un grano di morfina per Freud", ed. Manni) scrive, il venerdì e il martedì, su “Agenzia Radicale”. Dal 2009 dirige la Fondazione di Poesia e Storia. Il nome della rubrica è “Poesì”, come nel primo canto del “Purgatorio” Dante chiama la poesia.
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