di Piera Scognamiglio
Nei vari racconti che l’arte ci ha trasmesso, da “La nave dei folli” di Bosch a “La zattera della Medusa” di Géricault, il mare, famigerato protagonista di questi giorni per il tema degli sbarchi, è stato spesso chiamato in causa e, con esso, la nave/barca come metafora della società a rischio.
Così, dai pericoli del vizio e del peccato minuziosamente descritti dal pittore Hieronymous Bosch, alla denuncia di uno Stato inefficiente nella tela di Géricault, il quale descrisse il tragico naufragio di soldati e civili diretti verso la colonia francese del Senegal, siamo passati a confrontarci con una “nuova” emergenza: l’immigrazione.
Quest’ultima, infatti, vissuta da una buona parte della politica italiana come una problematica per la nostra società, ha finito col generare deliri e paure, di fronte ai quali svanisce ogni possibilità di com-prendere.
All’arte, dunque, il compito di recuperare una dimensione più “umana” della questione giacché, contrariamente a quanto avviene in politica, nell’arte “esporsi” significa necessariamente “esprimersi”, ovvero avere qualcosa da dire e da raccontare all’altro, condizione essenziale per far scattare la molla dell’empatia e della condivisione con il pubblico.
Lo spazio del dipinto o della performance, in cui la narrazione metaforica si sostituisce agli stereotipi dei notiziari e le tragedie vengono comunicate per quello che sono e non in termini statistici, è un’opportunità per conoscere le cose attraverso il filo diretto del racconto e dell’esperienza.
Le storie che le due artiste italiane Kyrahm e Julius Kaiser hanno raccontato al pubblico attraverso il loro nuovo progetto “A(mare) Conchiglie”, “sbarcato” sulle coste di Nettuno lo scorso luglio, sono un esempio di resistenza all’impulso nichilista che è dentro la notizia di generare i nuovi invisibili della società, secondo procedimenti talvolta esclusivi (es. clandestino no/ rifugiato sì).
Dopo aver cercato, per due settimane, nelle strade e nei centri di accoglienza i protagonisti di questa performance, anziani, prostitute, immigrati si sono ritrovati per “un’ultima cena laica” in riva all’acqua al calar del sole, come “conchiglie del mare, amare, da amare”.
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Kyrahm, la scelta simbolica della conchiglia come metafora per rappresentare le vite stravolte di chi vive ai margini della società, conchiglie che “distrattamente calpestiamo sulla spiaggia ma che gridano il vento se vi poggiamo l’orecchio”, è anche un tentativo di far emergere un nuovo concetto di bellezza?
Il gioco etimologico “(A)mare Conchiglie” rimanda all’amarezza, al concetto di amore e al mare: come conchiglie i migranti sono approdati sulle nostre spiagge.
La conchiglia fu il primo oggetto di scambio, la prima forma di denaro, venne usata per millenni in molti luoghi del mondo già nel 7000 a.C. in Cina, nelle Indie, in Australia, in Africa etc. Inoltre, la conchiglia fu la principale moneta con cui gli europei acquistavano gli schiavi: i migranti che abbiamo coinvolto nella performance provengono dalla Nigeria e lì, durante la schiavitù, un ragazzo costava 30.000 conchiglie.
La conchiglia, dunque, è un esempio lampante che il valore materiale è un’attribuzione relativa alle condizioni storiche e culturali. I bambini, attraverso il gioco, attribuiscono agli oggetti un valore sempre differente: ricordo con nostalgia la meraviglia che provai la prima volta che mio padre mi fece “ascoltare il mare” appoggiando sul mio orecchio una conchiglia… Con la nostra performance“(A)mare Conchiglie” invitiamo il pubblico ad ascoltare le storie dei migranti.
Dietro “A(mare) conchiglie” c’è stata una ricerca personale per ricostruire le tue origini a partire dalla storia del tuo bisnonno, emigrato negli Stati Uniti in cerca di una vita migliore. Questo ci ricorda che un secolo fa le vittime dei naufragi erano proprio gli italiani emigranti in America, mentre coloro che riuscivano a sopravvivere divenivano oggetto di stereotipi discriminatori, come indicato nella Relazione dell'Ispettorato per l'immigrazione del Congresso degli Stati Uniti sugli immigrati italiani del 1909 che voi avete citato… Come è possibile che l’Italia abbia dimenticato tutto ciò?
Primo Levi disse che tutti coloro che dimenticano il loro passato sono condannati a riviverlo e questo costituisce uno dei pericoli più grandi dell’umanità.
Parte della nostra politica utilizza argomentazioni del tutto fuorvianti, ad esempio collegando il tasso di disoccupazione e gli immigrati in una vera e propria campagna antisociale che fa leva sulla spirale del silenzio della comunicazione . E’ compito dei comunicatori, dei giornalisti, degli insegnanti mantenere viva la memoria, fare ricerca ad aiutare le persone ad avere accesso alla verità. Il dovere sociale dell’artista è quello di individuare le urgenze e denunciare le problematiche.
Per “(A)mare Conchiglie” abbiamo voluto nella stessa tavolata gli immigrati africani ed un ex emigrato italiano (mio padre) che si recò in Germania nel dopoguerra: lo scopo è chiaramente di evidenziare gli incredibili parallelismi tra la nostra e la loro storia. Parliamo di ragazzi che hanno perso tutto, a cui hanno massacrato la famiglia, privi di risorse. Tornare indietro o restare significa per loro morire o vivere.
Di fronte a un’Europa che innalza muri come in Ungheria o minaccia di farlo come nella Gran Bretagna di Cameron, per voi che sperimentate anche sul vostro stesso corpo il superamento dei limiti mentali e fisici, quali dovrebbero essere i passi da compiere per superare i limiti connessi al tema dell’accoglienza?
Lev Vygotskij afferma che sia il linguaggio a formare il pensiero. Già parlare di “Europa”, “Italia”, “Ungheria” svela l’accettazione dei confini politici imposti. Il primo passo è quindi iniziare a individuare queste trappole abbattendo in prima persona quei muri e lavorare alla formazione di una coscienza critica che possa renderci tutti più umani.
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