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24/11/24 ore

'L'ultimo viaggio di Sindbad', Erri De Luca racconta i migranti dell'anima



I migranti non sono solo “carne che viaggia, ma speranza. Sono quelli che ci raggiungono da tutte le parti del nostro territorio, così vasto da rendere impensabile qualunque misura di contenimento”. Erri De Luca parla così del suo libro, ‘L'ultimo viaggio di Sindbad’, appena ristampato da Einaudi (pp. 53, euro 7).

 

“Il segreto di questi viaggi -spiega lo scrittore- è che non vengono da nessuna scelta e da nessuna libertà, perché la libertà era restare. Nascono dalla necessità, e hanno un biglietto di sola andata”. “Questi –rimarca- sono titoli di nobiltà della parola viaggio. Quello che combiniamo noi sono spostamenti, i migranti ci dimostrano che i confini sono formalità. Ignorate dagli uccelli migratori come da quelli che vanno a piedi”.

 

‘L'ultimo viaggio di Sindbad’ è un racconto di mare e di vita. Sottocoperta un carico di uomini, donne, bambini aspetta di arrivare alle coste italiane. Sindbad, il capitano, è all’ultimo viaggio, “trasporta migratori e migratici verso il nostro Occidente, chiuso a filo spinato”. “Malvenuti a bordo”, urla. Sindbad è il marinaio che li porterà in bocca all’Occidente. I migranti “sono delle casse, così è scritto nel libro di bordo”.

 

Tagliano il mare lasciandosi alle spalle l’inferno. Un passeggero guarda il blu della distesa salina, assapora futuro: “Dev’esserci da qualche parte la libertà”. Un altro grida: “Dov’è l’Oriente?”. Vuole orientare la preghiera, e anche la vita. L’Oriente è a poppa, insieme al rumore delle eliche.

 

Sono migranti in viaggio, accomunati dalla stessa sorte. Non a caso il nostromo nota: “Gente di popoli nemici che a terra si è scannata e si scannerebbe subito, qui dorme fianco a fianco e si aiuta pure. Com’è strana l’umanità”. Si diventa fratelli solo nel viaggio. Consumando partenze e ritorni, come accadde per la partenza dei nostri migranti verso le Americhe. “Allora – scrive De Luca – il molo del porto di Napoli era nero di madri”.

 

Gli emigranti “tenevano speranze”, ma il dolore resta. Una madre urla il nome del figlio che non vedrà più. “Gridò da madre, da sirena, da cagna, fa uscire la voce dall’intestino, non dalla gola”. Quel nome, Sal-va-to-re-e-e, rimbomba come un tuono. Lascia al capitano una “cicatrice musicale nella testa”, inguaribile. Una ferita aperta. La porterà ogni tempesta, e ogni storia di carne che cerca senso e destino.

 

Quell’uomo, un giorno che non si cancella, veniva chiamato con l’ultima voce di sua madre, “l’ultima buona per raggiungerlo ancora, con l’ultima sua forza carnale”. Sulla pietra del porto di Napoli “si poteva sentire il rumore degli addii”. Carta vetrata che passa sul cuore. Gli emigranti di ieri e di oggi “hanno una sorte di paglia”.

 

Con queste pagine di grande intensità, Erri De Luca ha scritto una seconda ‘opera sull'acqua’, questa volta in forma di racconto teatrale. E anche in questo caso ha incrociato ricordi biblici e letterari con immagini della storia e della cronaca. Il suo Sindbad è una reincarnazione mediterranea del personaggio delle ‘Mille e una notte’: un marinaio che ha visto ogni tempesta e ogni bellezza, ma anche le migrazioni del primi del Novecento verso le Americhe.

 

È lui a portare i migranti di oggi verso il loro sogno italiano ed europeo. E loro, questi nuovi migranti, riempiono la sua storia di nuove storie, di sogni, di leggende, di incoscienti atti di coraggio. Poi ci sono Giona, Kohèlet, San Paolo, Sheherazade e altre voci ancora, ad allacciare gli uomini alle parole.

 

E poi, soprattutto, c'è il mare, con la sua forza terribile, i riti propiziatori, la sua generosità inattesa. A Gerusalemme, si racconta sulla nave dei migranti di Sindbad, ci sono ospedali che curano chi crede di essere il Messia. Ce ne sono una decina a settimana ricoverati per queste ragioni, nella terra dove passò il Nazareno. Ma in mare è diverso. Qui c’è solo la lotta. In mare non ci sono taverne, narra la saggezza partenopea.

 

Il mare è il posto “dove le terre smettono”, e l’unica legge è navigare, spingere remi e motore per trovare ancora terra. Nella traversata ognuno si porta dietro le sue valigie. Ci sono venditori di colombe che vengono gettati in mare per placare la tempesta, quella forza che solo le balene sanno scansare. Eppure, di fronte al pericolo delle acque, torna la speranza della parola. Si racconta.

 

“Fa bene – chiosa il nostromo – in mezzo a una tribolazione ricordarsi di una peggiore”. Storia di gente che vuole passare l’acqua: “Quando uno ha uno scopo e un destino, va nel fuoco e non si brucia, nell’acqua e non si bagna”, sostiene il capitano che pure ha perduto tanti viaggi di ritorno dalla vita e ora cerca nel rumore della pioggia la moglie morta. Sulle barche della speranza nascono bambini, qualcuno muore.

 

“Li chiamano Gesù quei cuccioli nati sotto Erode e Pilato messi insieme”. Sono figli di clandestini, “niente di queste vite è una parabola”. Il viaggio è lungo, e “gli occhi pesano”. Nella stiva chiusa come la notte si masticano preghiere e superstizioni, si fanno riti per allontanare la morte che viene con le onde.

 

Sindbad lancia ai disperati i dadi del destino: sulla terraferma, spiega con parole di marinaio intrecciate come le funi, “troverete brava gente e prigioni, si tratta di fortuna Se vostra madre vi ha dato un poco di sorte, vi andrà bene”. Parte una filastrocca, ‘tutti i fiumi vanno a mare e il mare non li riempirà’.

 

Il viaggio oltre il mare si può compiere solo stringendo la carne di chi si ama. Solo così si può durare oltre il sale che inghiotte i ricordi. La verità, forse, è nelle parole del capitano che conosce la legge delle acque: “Si salvano dai malanni e dalle tempeste quelli che hanno una donna che li aspetta. In punto di pericolo le forze si raddoppiano, sono in due a combattere. La morte si stanca contro due alla volta, preferisce i solitari”.

 

Salvatore Balasco


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