A cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo nell’Europa orientale vi era una grande quantità di villaggi, gli shtetl, in cui ferveva un’intensa e variegata vita ebraica, spesso sconvolta e distrutta da feroci pogrom e che fu definitivamente inghiottita dal genocidio nazista. Di questo mondo, che è stato fonte di ispirazione per numerosi artisti tra i quali scrittori, pittori e cantanti, si ha un piccolo assaggio anche nel volumetto “Stazione di Baranovitch” di Shalom Aleichem pubblicato dalle Edizioni Dehoniane.
Tre brevi racconti estratti da una più ampia raccolta scritta in yiddish e uscita fra il 1913 e il 1914 dal titolo: “Storie ferroviarie. Racconti di un commesso viaggiatore” in cui l’io narrante è, si direbbe oggi, uno scrittore per caso, una persona a cui è capitato di incontrare una moltitudine di gente e di ascoltare le storie più disparate, così tante che ad un certo punto sente l’esigenza di trascriverne alcune, più per ingannare il tempo che non per una precisa e programmata volontà di trarne un mestiere: “Che cose straordinarie si vedono quando si è in viaggio! (…) Quando si è in viaggio, a tutti noi viaggiatori capita spesso di dover restare seduti tutto il giorno, senza avere assolutamente niente da fare, finché a volte ci viene addirittura voglia di battere il capo contro la parete.”. Così il protagonista prende un taccuino e comincia ad annotare.
La prima storia è ambientata in un vagone di terza classe affollato di pendolari e povera gente i quali vengono completamente assorbiti dal racconto di uno di loro “che non aveva trovato posto nella carrozza e che quindi si allungava sopra di noi, appoggiato alla parete divisoria (…) un uomo curvo, con un cappello di seta per il sabato in testa, una faccia rossa, piccola, con occhi che ridevano, senza denti davanti”.
Protagonista è un giovane oste che viene arrestato dalla polizia zarista. Per evitare che venga frustato e torturato i suoi concittadini architettano un piano per la sua fuga facendolo credere morto. Il malcapitato riesce a scamparla ma si rivelerà una maledizione per i suoi salvatori.
Nella seconda, l’io narrante incontra in treno un commerciante che lo prende sotto braccio e lo accompagna al buffet della stazione di passaggio. In attesa di ripartire l’ospite racconta all’improvvisato scrittore della sua immigrazione in Argentina e della fortuna che, attraverso mille peripezie, è riuscito a raggiungere suscitando nell’ascoltatore alcune grosse curiosità.
La terza si svolge di nuovo interamente in un vagone in cui vi è una coppia di anziani che sta tornando da una dolorosa visita al cimitero. A raccontare è lui, padre di una ragazza che si è ribellata alla volontà dei propri genitori, mentre la moglie giace per terra addormentata dopo essersi a lungo disperata. Una storia triste in cui emerge il conflitto eterno fra le diverse generazioni.
Questo mondo in cui il racconto orale costituiva una parte fondamentale della vita quotidiana, non solo per tramandare cultura e tradizioni o per intrattenere grandi e piccini, ma anche per comunicare notizie e informazioni talvolta di vitale importanza, viene descritto da Shalom Aleichem (il cui nome reale era Shalom Rabinowitz), come se fosse un ambiente onirico e fluttuante, in cui i personaggi sembrano volare o rimanere sospesi a mezz’aria. Esattamente come in molti quadri di Chagall, il quale si ispirò spesso proprio al famoso scrittore.
Anche la narrazione, con l’abbondanza di domande a cui non seguono risposte, sembra condurre il lettore in una dimensione intermedia tra la realtà e la fantasia, lasciandogli la possibilità di immaginare il proseguimento o la conclusione di ogni storia.
Corredato da un’interessante presentazione contenente una breve biografia di Shalom Aleichem e un’introduzione al mondo ashkenazita e allo sviluppo della letteratura yiddish a cavallo tra 8 e 900, il libriccino, per le sue dimensioni potrebbe essere facilmente letto, guarda caso, durante un breve viaggio.
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