di Silvia Lanzani
Gli scenari si costruiscono sempre insieme, al plurale, sapendo tuttavia – come insegnava il Nolano – che ogni punto è ‘centro’. «Patico» è il modo umano della coscienza. Esso è in atto in ogni momento del Sentir-si. Le emozioni vi si umanizzano ed entrano nella “e-sistenza”. Così avviene il sempre nuovo cadere della coscienza fuori del proprio attuale con-sistere. In questo atto si coinvolgono non soltanto le emozioni ma qualsiasi vissuto. Ce lo insegna uno dei più grandi filosofi del nostro tempo, Aldo Masullo, 95 anni il prossimo 12 aprile, che firma uno straordinario testo filosofico, ‘L’Arcisenso. Dialettica della solitudine’ (Quodlibet, pp. 194, euro 17), nel quale il Professore emerito di Filosofia morale alla Federico II di Napoli reimpagina e approfondisce, con nuove e potenti riflessioni, i temi di una intera vita di ricerca filosofica, lasciando una traccia profonda, potremmo dire lavica amando la sua Napoli, negli studi sulla paticità.
Il percorso, infatti, da 'Paticità. L'intoccabile tocco', a 'Grazia. Il repentino della poesia', passando per 'Dolore. La scelta di Chirone', 'Eraclito. il desiderio eroico', 'Leopardi. Sentire corporalmente il pensiero', 'Silenzio. L'indecenza della parola' e 'Sapienza. Nel relativo è la salvezza'. Preziosa anche l'Appendice 'Nel labirinto della soggettività. Appunti per un'autobiografia filosofica' e, non ultimo, un autentico 'tocco' di stile con il 'ringraziamento' ai suoi allievi migliori - migliaia nel tempo - a iniziare da Giuseppe Cantillo e Bianca Maria d'Ippolito, fino ai dialoghi con amici come Matteo Palumbo e Gerardo Picardo.
Per Masullo non solo non vi sono piacere o dolore, ma neppure ragionamento o azione, immaginazione o ricordo, che siano umani, se non sono sentiti, se non recano, sia pure nascosti ma sempre pronti a saltar fuori o almeno a far capolino tra le pieghe del vivere, «lo stupore con cui si manifesta il sé» e «l’angoscia dell’esser toccati da eventi, senza perché». Ogni accadere tocca a me, proprio a me, senza che io sappia perché, così come non so questo me donde venga né dove vada, anzi neppure perché mai proprio a me questo me sia toccato.
Con l’accadermi, la coscienza di me ancora una volta cade fuori del suo con-sistere, e proprio in ciò io e-sisto. Sensus non c’è, se non è sensus sui. Lo stesso sé in nient’altro consiste che nel sensus sui, nel sentimento di sé, nella tensione verso sé come verso l’unità che si ha l’impressione di essere. Esso non è né «prima» né «dopo» questo o quel sentire, ma è sempre di ogni sentire la condizione originaria. Un filosofo tedesco lo chiamerebbe Ursinn. Masullo lo definisce «Arcisenso».
L’avvertimento del sé muove dall’intimo della vita, che nell’individuo umano, sentendo-si, vive. La vita ogni volta accade, e accade in quanto accade al sé che la vita allucina - ad un sé a cui l’accadere tocca, quasi il sé fosse prima dell’accadere, il vissuto fosse prima e non a partire dalla vita vivente. Se una differenza non colpisse, il sé non apparirebbe; né il colpo della differenza, il tempo, apparirebbe senza un sé colpito. Si tocca così la falda più profonda della fenomenalità di ogni fenomeno, il fenomeno primario con cui s’inaugura la possibilità stessa dell’apparire e senza di cui nessun altro fenomeno sarebbe possibile. «Fenomeno» è il calco italiano del greco φαινόμενον, participio del verbo deponente φαίνεσθαι, che in greco vuol dire «apparire», «manifestarsi».
Il φαινόμενον è l’«apparente», il «manifestantesi», cioè l’apparire, il manifestarsi, nel momento stesso in cui appare, si manifesta. È impersonale, senza soggetto, atto con cui tutto appare, tutto si manifesta, il mondo delle cose e di chi le vede e le usa. Il manifestarsi è tutto. L’apparire, il manifestarsi, è puro accadere o, come pur si dice, evento.
Nel vissuto del tempo e del sé, l’emozione di sorpresa nel sentire come contingente l’accadere e l’emozione di angoscia nel sentire come precario il sé strettamente si tengono. Senza il dolore che l’infallibile arciere del tempo infligge, non emergerebbe il sé come il vivente bersaglio di questa offesa. Ma, se il sé non emergesse, il colpo del tempo cadrebbe nel vuoto o riuscirebbe frustrato.
La vita fa come una piega - si «ri-piega su di sé» - . In ciò sta il punto d’origine della fenomenalità, là dove il vivente si converte in umano e si apre a se stesso, si fa soggettivo. La vita stessa si duplica (si complica nel «vivere il proprio vivere», come letteralmente suona il tedesco er-leben), e vivendo prova l’emozione di sé.
Avviene appunto quel che si esprime con il verbo πάσχειν, che vuol dire «patire», non necessariamente nel senso della sofferenza, ma in quello ampio del «provare», cioè del «vivere» usato transitivamente, come nelle espressioni «ho vissuto un brutto momento» e «ho vissuto una bella esperienza». Radice del verbo πάσχειν è παθ, da cui si forma il sostantivo πάθος: il calco italiano ne è «pathos» o più correntemente «patos». Il primo significato di πάθος è «ciò che si prova di bene o di male», in breve il vissuto. Si designa con ciò un’emozione sofferta, umanizzata dalla coscienza del sé.
Al fondo di ogni vissuto sta una rottura. La vita è un incessante rompersi, anche se abitualmente inavvertito. Quando il rompersi è violento e inabituale, l’in-differenza dell’essere esplode nella differenza dell’e-sistere. E’ questo il «repentino» (il platonico ἐξαίφνης). Esso scopre l’inarrestabile passo del cambiamento, ciò che «noi per abitudine chiamiamo tempo».Si mostra qui l’umanità originaria dell’emozione, la falda profonda di ogni emozione propriamente umana. Ci si trova, per essa, presi nella dinamica esistenziale, in cui non soltanto le emozioni occasionali, ma tutti i vissuti, anche quelli intenzionali e semantici, cioè gli sguardi sulle cose e la nominazione di queste, si costituiscono nella loro fenomenalità, nella loro umanità di vissuti. Solamente nel patico si e-siste.
Il sentir-si non è soltanto dell’emozione, ma di qualsiasi vissuto. Non solo non vi sono piacere e dolore, ma neppure percezione e ragionamento, immaginazione e ricordo, che siano tali, umani, se non sono intrisi di sentir-si, se non recano, sia pure nascosti ma sempre pronti a saltar fuori o almeno a far capolino tra le pieghe di qualsiasi atto del vivere, «lo stupore con cui si manifesta il sé» e «l’angoscia dell’esser toccati da eventi, senza perché». Ogni accadere tocca a me, proprio a me, senza che io sappia perché, così come non so questo me donde venga né dove vada, e neppure perché proprio a me questo me sia toccato.
Con l’«accadermi» la coscienza di me ogni volta salta fuori del suo con-sistere, e proprio in ciò io e-sisto. Essa qualifica il vissuto, il riferimento esplicito o implicito a un sé, coscienza riflessiva, autocentrata ancora prima che nella pubblicità della forma linguistica «io» e nella determinazione dialogico-concettuale. Insomma, se il vissuto è l’evento propriamente umano, la paticità è il nucleo intimo del vissuto, la fenomenalità di ogni fenomeno, l’arcisenso.
All’autocentramento però concorrono non soltanto la folgorante emozione del tempo, sofferto trauma della differenza, con la sua oscura figura del sé, ma pure la bruciante inquietudine dell’incontro con l’altro, il tacitamente interpellante, a me familiare o estraneo, seducente o minaccioso, comunque sempre enigmatico, tra me e lui reciprocità interiormente vissuta di speculari rimandi simpatetici o antipatetici. Nell’incontro, in ogni uomo l’immagine dell’altro lo anima del suo sé, e questa a sua volta intanto corrobora il sé di lui e lo arricchisce di tocchi. In questo vivo gioco di reciprocità ognuno si sovradetermina, enfatizzando sé come io e l’altro come tu.
L’emozione, in cui consiste il tempo, l'avvertimento «destabilizzante» di repentini cambiamenti, l’irrompere della differenza in noi, frantuma l’inerte identità dell’ente, ne distrugge l’apaticità, mette in moto la dialettica dell’altro nel sé di ognuno, e di ognuno nel sé dell’altro. La paticità è costitutiva dell’e-sistenza. Nella vertigine patica, sotto l’imperio del tempo, ci si ritrova comunque sempre da capo presso ad una soglia del nuovo, soli nel deserto di un assoluto «inizio». Tutto si ripete, nulla dura. Si danno infinite repliche, ma nessuna identica.
Il vissuto di tempo si rifrange nei molteplici cromatismi emotivi: nella sofferenza per l’identità perduta e l’abitualità sconvolta, nel tremore del destino incombente, nella insicurezza del rapporto con l’altro. Ma esso intero fiammeggia nell’inquietante sfida dell’inizialità, nel muoversi verso il nulla, il vuoto del futuro, a partire dal nulla, dal vuoto del passato. Nella paticità ogni volta, al centro della vita, le occasionali emozioni si “umanizzano”, da fatti naturali si ri-generano in prove umane. In umana anzi si ri-genera la vita tutta, da semplice vita vivente convertendosi in vita vissuta.
Nell’esplosa drammaticità dell’e-sistenza, l’oscuro avvertire che l’identità della coscienza di sé dura solo attraverso la difficile prova del suo incessante perdersi scatena l’emozione originaria, il vissuto decisivo. La morte non è che il caso estremo, la chiusura di partita, di tutte le infinite morti per cui la vita, che è «tempo» ma più propriamente l’incessante cambiamento delle cose (il sempre nuovo irrompere della differenza), fatalmente patisce la sua intrinseca precarietà non solo, dalla parte del dopo, nella straordinaria tragicità della catastrofe finale quanto pure, dalla parte del prima, in certa ordinaria catastroficità del quotidiano.
L’Arcisenso è impenetrabile, ma penetra di sé ogni esperienza. Esso contrasta l’intersoggettività, la relazione d’ogni singolo con gli altri, e tuttavia è condizione necessaria della sua possibilità. È evidente che il principio antropologico - l’idea con cui si comprende il senso di essere «uomo» -, si muove in un circolo. Punto di partenza e punto d’arrivo è sempre la relazione, ma in due versioni diverse. Tra il primo e il secondo funziona una cerniera, un medio: la solitudine. Questa può essere puro sentire o ragionata consapevolezza, ma è comunque paticità del sentir-si. Essa non sarebbe chiaramente e dolorosamente presente senza l’io, che si costituisce nella relazione, a cominciare dalla simbiosi bambino-madre.
A sua volta, senza la patita coscienza della solitudine, della propria separante differenza e unicità, cioè dell’irriducibile esclusività del proprio punto di vista, neppure esisterebbero la pluralità degli individui e la relazione sociale che ognuno d’essi strenuamente e in vari modi persegue, affaticandosi a costruire sistemi di comunicazione con altri soggetti-persone.
Senza l'incontro di un vivente con altri, nessun vissuto si avrebbe. I fenomeni patici e le fenomeno-patie non si originerebbero senza il gioco di una pluralità di viventi. L' «universalità» della «verità» e dei «valori» in genere non se ne potrebbe generare nell'indifferenza. Essa può dischiudersi soltanto con il crescere dei vissuti nell'assidua e vivente reciprocità della «cura», nell'illimitato complicarsi delle relazioni sin-patetiche; nel sempre nuovo incrociarsi di Aufforderungen («appelli», «pro-vocazioni», «inviti»), come genialmente proponeva Fichte nel dedurre il fondamento intersoggettivo della soggettività e nell'annunziare con esso il significato nuovo dell'universalità dello «spirito».
Pensare l'assoluto non della morte, il nulla, ma della vita, è pensare la relazione, l'illimitata relazione di relazioni. Etico, o più propriamente 'path/ethico', è il pensiero che, coltivando la sapienza del relativo, ci mantiene nella vita. Liberi.
(Aldo Masullo e Gerardo Picardo)
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