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23/11/24 ore

Venezia-Fossoli: Direzione Auschwitz, lettere di Cesare Carmi (1943/1944) a cura di Luciana Laudi


  • Elena Lattes

Nato a Genova nel febbraio del 1923, Cesare Carmi, festeggiò il suo ultimo compleanno, il ventunesimo, nel Campo di concentramento di Fossoli, in Emilia Romagna. Pochi giorni dopo, infatti, fu deportato ad Auschwitz per morire l’inverno successivo “in un luogo imprecisato della desolata pianura polacca”.

 

Nei poco più di due mesi di detenzione in Italia, Cesare scrisse numerose lettere che furono amorosamente custodite per quasi 70 anni da Flavia Silvestri destinataria delle stesse. Suo marito, una volta rimasto vedovo, le consegnò alla Comunità ebraica di Genova e, nel 2013, vennero acquisite da Luciana Laudi, figlia di una sorella di Cesare che le ha successivamente affidate alla Casa editrice Il Prato.

 

Secondo quanto raccontato in famiglia, Cesare fu un ragazzo normale, ribelle e con poca voglia di studiare, cresciuto da una mamma dal “carattere forte ma infelice, incapace di manifestare il suo affetto” e da un papà “buono e gentile che, forse per amor di pace, non si schierava apertamente dalla parte del figlio”, così, quando sua sorella si sposò, lui, che era ancora adolescente, si ritrovò solo.

 

Nel 1938, a causa delle leggi razziali, fu costretto ad interrompere gli studi ginnasiali, e proseguì dunque con un corso di stenografia. Tre anni dopo si trasferì a Chioggia, dove fu ospitato da un’accogliente famiglia locale, i Toffoli, imparentati della giovane Flavia, anch’ella sfollata da Genova. I suoi congiunti, rimasti nella città natale e poi rifugiatisi, chi nei dintorni (i genitori), chi nel bolognese (la sorella con marito e figlia), probabilmente ritennero che anche Cesare si trovasse al sicuro.

 

Purtroppo, però, la denuncia obbligatoria di cambio di residenza che venne presentata dai Toffoli nel 1941 alla Pubblica Sicurezza, fu quasi sicuramente la causa del suo arresto da parte delle autorità fasciste, nel dicembre del 1943. Fu rinchiuso nel carcere di Venezia per sedici giorni per poi essere trasferito al campo di concentramento vicino Carpi dal quale transitarono molti deportati italiani.

 

Da quel che scrisse nelle numerose lettere e cartoline spedite in quei due mesi e di cui il volume “Venezia-Fossoli Direzione Auschwitz” riporta alcuni degli stralci più significativi, si denota un ragazzo inizialmente spaventato e disorientato: naturalmente non capiva perché era stato arrestato e sbattuto in prigione come un comune delinquente, si sentiva solo, “catapultato in una realtà impensabile, una realtà fredda e inospitale”.

 

Fu inizialmente costretto a dormire per terra in una cella sovraffollata dove prese il raffreddore e sentiva “la mancanza di tutto”, compresi l’intimità e “il mangiare [che] è un affare serio”. Cesare riuscì a farsi forza e, quando il primo gennaio venne portato a Fossoli, raccontò nelle sue missive che il morale era alto, grato dell’affetto, dell’attenzione e dei pochi aiuti, che riuscivano ad arrivare, da parenti e amici.

 

Lì visse momenti di ottimismo e speranza, riuscendo, seppur con immaginabili ristrettezze, come detto, a festeggiare il suo ultimo compleanno. Poco prima, però, di salire sul carro bestiame, nel treno merci che trasportò anche il suo amico Luciano Mariani lo scrittore Primo Levi e tutti gli altri prigionieri, fu forse preso dallo sconforto, come scrive la nipote nel commento introduttivo: “Ciascun ebreo doveva organizzarsi per quindici giorni di viaggio, e solo pochi ormai nutrivano ancora speranze, probabilmente neppure Cesare. Fu una giornata da condannati a morte (...)”.

 

Ad Auschwitz Cesare fu assegnato alla fabbrica di gomma sintetica, la Buna, e riuscì a sopravvivere fino al gennaio dell’anno successivo, quando fu costretto, insieme agli altri prigionieri ancora in grado di camminare, ad intraprendere la famigerata “marcia della morte”. 

 

Nelle lettere scritte dal giovane emerge l’affetto per i suoi cari, la resilienza che sviluppò grazie alla capacità di aggrapparsi ai bei ricordi dei tempi di libertà, ma soprattutto il processo di maturazione che trasformò il ragazzo concentrato su se stesso e sui suoi bisogni in un uomo altruista che si preoccupava per i parenti e gli amici lontani e per i suoi compagni di prigionia.

 

La pubblicazione, curata anche dalla Fondazione CDEC (Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea) e che riporta anche alcuni documenti dell’epoca e le due lettere che Luciano Mariani scrisse alla mamma di Cesare nel 1946, quando riuscì a tornare in Italia, ha lo scopo e il merito di restituire l’individualità ad un giovane ordinario, mostrandolo “nell’intima delicatezza della vita quotidiana”.

 

Quell’individualità che il nazismo ha cancellato sei milioni di volte e che avrebbe continuato a sterminare, se non fosse stato fermato dalle truppe alleate.

 

 


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