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22/11/24 ore

Da isola dei dannati a terreno possibilità per rimettersi in gioco, Luigi Pagano racconta quarant’anni di carcere



di Salvatore Balasco

 

Nelle pagine de Il Direttore gli anni di piombo e la scommessa dell’Icam. Le riforme necessarie per inclusione sociale e pene alternative. Quel visionario napoletano che cantava Ma mì a Sabella. Il giorno in cui il killer Barra gli offrì la testa delle Br.

 

Storie da dentro. Da dietro le sbarre. Ma anche voce di umanità che si leva dai gironi dell’inferno carcerario. Testimonianza di potere responsabile tra rotonde e bracci, padiglioni malandati e riforme sempre necessarie, secondo lo spirito dell’articolo 27 della Costituzione e l’indicazione del trattamento rieducativo per i detenuti. Raccontano tutto questo le pagine di Luigi Pagano, Il Direttore. Quarant’anni di lavoro in carcere (prefazione di Alfonso Sabella, Zolfo Editore, Milano, pp. 299, euro 18). Riflessioni di chi sul campo c’è stato per quaranta lunghi anni e delle carceri conosce anche i tubi di scarico.

 

Classe 1954, Gigi Pagano è nato a Cesa, in provincia di Caserta. Laureato in Giurisprudenza e specializzato in Criminologia, riceve il primo incarico nel 1979, a venticinque anni. È il punto di partenza di un percorso che lo vede alla direzione di numerosi istituti penitenziari italiani: Pianosa, Nuoro, Asinara, Alghero, Piacenza, Brescia e Taranto, fino ad approdare nel 1989 a San Vittore, a Milano, dove rimane per quindici anni.

 

Dal 2001 somma anche la direzione della casa di reclusione di Bollate, tra le esperienze più avanzate per quanto riguarda l’inclusione sociale dei detenuti. Nel 2004 diventa Provveditore per l’amministrazione penitenziaria della Lombardia. Dal 2012 al 2015 viene chiamato a Roma dal Ministero della Giustizia ai vertici del Dap, per poi tornare in servizio al Provveditorato di Milano dopo aver ricoperto lo stesso incarico per Piemonte, Valle d’Aosta e Liguria. Oggi è consulente del Difensore civico della Regione Lombardia.

 

Camicia pesca e giacca celeste si presentò in un incontro con la stampa al Dap. Irregolare ma geniale, un po’ guascone, napoletano nell’anima, ma soprattutto un visionario che ha fatto rivoluzioni, come lo hanno raccontato cronisti di strada dell’Adnkronos come Marco Mazzu e Gerardo Picardo, che hanno seguito per anni le sue ‘rivoluzioni’ al Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap).

 

Uno che ha avuto coraggio di non fermarsi all’esistente ma di cambiare le cose sul terreno. Non ha mai sbagliato il tempo di un intervento o un vaffanculo (sempre garbato e ironico) prendendo la vena giusta perché ha cercato di capire la macchina e accettare le sfide

 

Pagano non è stato Melvin Peabody, il buffo direttore del carcere in cui sono reclusi i fratelli Dalton, spesso in contrasto con la signorina Betty sul modo di trattare i detenuti. Non lo è perché rispetto ai problemi non ha scelto di farsi mettere una coperta in testa. Al contrario, non si è stancato di chiedere, di farsi aiutare dalla società esterna, di creare reti positive per migliorare la realtà delle ‘case circondariali’. È così che sono nati i primi call center dal carcere, i laboratori di teatro, i corsi, i percorsi scolastici. Soprattutto il direttore che ha visto il matrimonio in carcere all’Asinara di Raffaele Cutolo con Immacolata Iacone, ha voluto ascoltare le ragioni dell’altro. Sempre rispettando la legge

 

Uno che poteva permettersi di fischiettare Ma mì, storica canzone della mala milanese, durante una visita di Alfonso Sabella al carcere, che ricorda con simpatia l’episodio nella prefazione al volume. Proprio il magistrato, in prima linea nella lotta alla mafia e attualmente Gip presso il Tribunale di Napoli, introducendo queste pagine come “una visione a scacchi degli ultimi quarant’anni della storia repubblicana attraverso le sbarre delle prigioni e con gli occhi di quell’umanità che le aveva popolate”, ha motivo di annotare: “Gigi non ha un fisico imponente ed è molto garbato nei modi, ma sa essere un vero gigante con una determinazione di ferro”.

 

Unum et idem, direbbero i filosofi. La biografia è una cosa sola con il pensiero di vita. Le riflessioni di Pagano si leggono d’un fiato. Si inizia dalle ‘domandine’ dei carcerati e si sorride per la scelta del toro da monta alla Fiera di Oristano da parte dell’allora direttore Francesco Massidda, e ci si imbatte in El Got e el Gino, due ‘simpatici’ mariuoli maldestri che avevano rubato una ruspa imboccando la superstrada per Desenzano o organizzato un furto in una fabbrica di scarpe portandosi via solo quelle sinistre.

 

Per la cronaca el Got si era preso pure il cane antidroga del carcere svezzandolo a base di Tavernello, dopo averlo istruito ad abbaiare contro i carabinieri. E poi i due fratelli galeotti che si barricano sul tetto del carcere di Brescia e parlano pure con la moglie del direttore quando stendeva i panni o con le due figlie, finché il terzo giorno’ – roba da resurrezione laica - Pagano si fece portare da una scala dei vigili del fuoco sulle tegole e convinse l’ultimo giapponese a scendere, usando come negoziazione la preoccupazione delle bambine per il detenuto che poteva scivolare dal tetto e farsi male.

 

Che dire dei colloqui kafkiani con il consigliere di via Arenula dalla memoria come quella di Dory o del concerto di Mario Merola al carcere di Taranto? C’è sempre lo zampino di ‘Gigi’ Pagano in queste svolte e aperture del carcere alla città che lo ospita, con la sua strategia che in un primo momento appare a fronn e limon e invece è pedagogia e pensiero lungo. Perché i tempi, a volte anche le leggi, bisogna anticiparli non inseguirli. Qui entra in gioco il fattore umano: “E’ l’uomo, la sua volontà di leggere con coraggio e sensibilità le norme esistenti che fa la differenza”.

 

In queste pagine anche l’amicizia con Candido Cannavò, allora direttore della Gazzetta dello Sport, che frequentava il carcere come volontario (quando gli portò le bozze del suo libro, “gli concessi solo un ‘uè’, giusto per non tradire le mie origini”, ma il giornalista rimise in italiano tutti i dialoghi in napoletano con il direttore) e la grande lezione di umanità del Cardinale Carlo Maria Martini, che più volte aveva voluto visitare i detenuti a San Vittore. Scorrono gli anni di Mani Pulite, Sergio Cusani (detenuto che “aveva le soluzioni, tutte”), le battiture e la mezz’ora di follia dei detenuti al dù, il carcere finito per anni sotto i riflettori finché finì la stagione delle manette e “tornò nell’ombra, restituito al silenzio per i soliti ignoti”. 

 

Si alternano riflessioni e aneddoti di vita concreta dentro le mura di cemento o cartongesso di un carcere. Ma l’intento non è celebrativo. Al cuore di questa cavalcata c’è la dignità delle persone recluse, la ‘ricetta’ dei percorsi rieducativi. “La conferma – scrive Pagano – è data dal fatto che le riforme hanno potuto incidere in profondità poche volte e solo allorché abbiano delineato misure e situazioni alternative alla detenzione”, un percorso nel quale “la necessità di migliorare l’esistente è un obbligo morale, prima ancora che giuridico”.

 


 

Un approccio serio, di contro al “pendolarismo di opinioni” che si innesca sempre quando si parla di giustizia penale e di carcere in particolare. Non c’è bisogno di interpellare la strega di Endor per sapere che il carcere è luogo di sofferenza. Chi non ricorda il Dostoevskij di Memorie dalla casa dei morti (citato, come tanti altri libri, nel pensato volume): “A Tobol’sk ho visto prigionieri incatenati al muro, una catena lunga un sazen…”. La macchina del castigo e della emenda, spesso complicata da una vera e propria esegesi di leggi e circolari, direttive e regolamenti, non di rado sopravvivendo “alla fluttualità tachicardica dei vertici dipartimentali”. 

 

Pagano questo lavoro lo ha scelto davvero, “non è stato un ripiego”. Il figlio di un onesto lavoratore, portinaio a Torre del Greco, è stato protagonista – dalla parte dello Stato e per conto delle Istituzioni – di decenni di storie carcerarie. Lui, ironico e scaramantico, sempre con una canzone napoletana in testa, ha iniziato il suo lavoro a Pianosa, l’isola del diavolo. Ha saputo guardare negli occhi la ‘popolazione’ carceraria, ma soprattutto leggere le storie e decidere.

 

Perché decidere per il bene di una struttura come il carcere viene prima di tutto e, a differenza di quanto sembri, un direttore è chiamato ad avere una visione, a distinguere il current dallo strategic. Ci sono giorni in cui manca l’acqua e bisogna intervenire, ma soprattutto ci sono – sempre – percorsi da studiare perché il detenuto non rimanga come ceppo inerte dentro la propria cella ma trovi ragioni di impegno e cose in cui credere. 

 

Per i ‘nati in matricola’ una impronta di questo tipo dice sicurezza, ma il rispetto – Pagano lo porta cucito nella propria storia professionale come una seconda pelle – si acquista sul campo da coloro che, “impegnati dall’odore del carcere”, ti pesano in due minuti e decidono se sei un uomo o un pesciolino di cannuccia. “A volte – rimarca ‘il Direttore – narrando di un confronto serrato con alcuni agenti della Penitenziaria – è necessario ribadire chi è che comanda. Senza esagerare, però”.

 

E così accade a Badu ‘e Carros, dove era stato portato il gotha del terrorismo. Il giovane direttore si ritrova con l’omicidio di Francis Turatello nel cortile del carcere di Nuoro, il 17 agosto 1981. Una telefonata del capoposto e la corsa nel cortile: “Al centro di quella vasca di cemento il corpo di Turatello era immobile, riverso a terra faccia in giù, in una pozza di sangue. Due detenuti, Pasquale Barra e Salvatore Maltese, si accanivano su di lui, continuando a tempestarlo di colpi; altri due, Vincenzo Andraous e Nino Faro, lì vicino, invece, non si capiva cosa facessero, se pensavano a trattenerli o controllavano che nessuno di avvicinasse. Sino a che Faro fermò gli altri, si inginocchiò, alzò la testa di Turatello e gli tagliò la gola. L’atto finale, lo scannamento, l’ultimo scempio fu il segnale che tutto era terminato e l’azione cessò di colpo”.

 

Intorno a quell’esecuzione fiorirono poi leggende nere, come quella secondo cui Barra gli avrebbe morso il cuore. Ma il camorrista ha un’altra verità e la racconta proprio a Pagano. Gli chiede se le Br gli dessero fastidio. Poi il killer getta sul piatto la sua proposta: “Dottò, voi mi togliete dall’isolamento e io ve ne ammazzo due, chi volete voi”. In quel periodo la vita di una persona in un carcere valeva meno di uno zero. “No, grazie, io queste cose non le faccio”, tagliò corto Pagano ammutolendo Barra, detto ‘Alias’. E forse qualche brigatista deve la vita a quel giovane direttore, anche se fino a queste pagine non l’ha mai saputo.

 

La scelta è sempre dietro l’angolo: “Allora se fai il direttore hai due strade davanti a te: convincerti che lo stato presente sia immodificabile – “manca il personale, le strutture, i soldi, e si sa può succedere di tutto” – o ricordare quali sono i tuoi doveri, la tua responsabilità e agire di conseguenza. Certo, ci vuole equilibrio, le rivoluzioni totali non danno buoni risultati, probabile che generino micidiali onde di riflusso, ogni novità andrebbe invece introdotta gradualmente perché possa assestarsi, essere metabolizzata, divenire resistente e reggere a sua volta il passaggio successivo, e così via”. 

 

E allora capisci l’importanza di potenziare le attività, anche se un maresciallo un po’ nichilista che tra quelle mura ha consumato anche il proprio disincanto ti dice “e mo facimmo pure o’ teatro”. E poi addirittura – eresia pura per quella stagione – Pagano invita Maurizio Costanzo al ‘palcoscenico’ del carcere di Brescia. Rischia tutto, e vince. Perché quello strano direttore non cercava un riflettore sotto cui scaldare il proprio ego ma una via possibile per dare umanità alle strutture che governava.

 

“Era suppergiù questa le lettura sul carcere che speravo passasse, dare una dimensione del normale, smitizzare l’idea dei mostri, della rotellina guasta nella testa dei criminali, della fossetta occipitale descritta da Lombroso che condanna alla devianza”. 

 

Il ‘Progetto Bollate’ fu una rivoluzione che resta, un modello nuovo di carcere, ma senza fare gli apprendisti: “Abbiamo rispettato la legge e la sua ratio”, rimarca Pagano, perché occorre creare il terreno giusto per il processo di riabilitazione. “Il rispetto della dignità del detenuto finisce per produrre sicurezza” e abbattere l’indice di recidiva.

 

Pagano ha avuto la pazienza (e la tigna) del maestro d’ascia o dell’analista che unisce i puntini: “Nei miei quarant’anni di lavoro se ho imparato una regola utile è quella che se vuoi risolvere un problema prima di imprecare all’impotenza e invocare l’adozione di nuove norme è più saggio andare a rileggersi quelle esistenti, bisogna vedere quel che si è già visto, vedere di nuovo quello che si è già visto. Bisogna ritornare sui passi già dati, per ripeterli e per tracciare a fianco nuovi cammini”.

 

La strada necessaria è centrata su inclusione sociale e pene alternative. Occorre abbattere muri di indifferenza e continuare a cercare connessioni con la società civile, il terzo settore, il mondo del volontariato. Portare il carcere nella città e non nell’isola dei dannati. “La mia abitudine era di tenere la porta aperta perché non mi distraeva avere contatti diretti con le persone”. 

 

Forse ‘il Direttore’ ha davvero cercato le uova del Drago, difficilissime da trovare. Ci vuole una pazienza enorme per vederle schiudere, eppure chi saprà resistere vedrà nascere una generazione di creature immortali. Fuor di metafora – questa è realtà, una bella realtà – resta l’Icam, l’istituto a custodia attenuata per detenute madri. Anche su questo occorre riflettere: “Ancora oggi qualcuno si chiede perché i bambini siano ancora in carcere nonostante le promesse ripetute da ogni Ministro insediatosi in via Arenula”. Resta anche il monito di Pagano: “Potere e responsabilità sono due facce della stessa medaglia, non si può chiedere l’uno e declinare l’altra”.

 

“La voce – sono ancora parole di Alfonso Sabella – è quella, senza retorica, di un leale e fedele servitore dello Stato”. Una risorsa che ha ancora tanto da dire. C’è da giurarci che non lo vedremo ai giardinetti.

 

 


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