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21/11/24 ore

‘Punizione’ di Giovanni Fiandaca (Il Mulino)



 di Enrico Seta

 

In epoca di populismo giudiziario o, secondo la precisa definizione dell’Autore, di “deriva punitivista”, l’editrice Il Mulino opportunamente decide di dedicare uno dei volumetti della collana “Parole controcorrente” alla voce “Punizione”, affidandone la scrittura a Giovanni Fiandaca.

 

La notorietà dell’Autore nel campo degli studi penalistici e la esperienza maturata come garante per le carceri nella Regione siciliana ci portano immediatamente al centro della questione: la ricognizione sullo stato attuale dell’antichissimo dibattito sulla funzione e gli scopi della pena giudiziaria e sulla sua efficacia e, in particolare della pena per eccellenza: la restrizione carceraria.

 

Il merito principale, ma non l’unico, dell’agile saggio è quello di proporci – lungo il corso della densa trattazione -  uno spaccato storico trasversale di un tema filosofico - prima ancora che giuridico - sociologico, pedagogico, antropologico.

 

Nel concetto di punizione, e quindi non solo in quello di pena giudiziale, confluisce un fascio di istanze e di pulsioni – anche primordiali - di cui forse Nietzsche, per primo in epoca moderna, intuì la stratificazione storica. Il filosofo tedesco fu infatti il primo a cogliere il nesso antropologico e psicologico fra punizione e guerra, così come fra punizione e festa.

 

Viene immediatamente alla mente – da un lato - l’abuso che ancora oggi si fa nella comunicazione pubblica del concetto di “nemico della società” e – dall’altro – l’immagine delle tricoteuses parigine che accorrevano ai piedi della ghigliottina nello stesso clima di tripudio delle grandi feste popolari.

 

Certo, oggi queste feste non avvengono più nello spazio pubblico delle piazze (sebbene durante Tangentopoli i girotondi intorno al Palazzo di giustizia di Milano ne abbiano riproposto l’atmosfera) ma il compiacimento si è piuttosto ritirato nel consumo privato di una informazione giudiziaria dai tratti evidentemente morbosi su cui forse non si ancora è posato con la dovuta attenzione lo sguardo della psicologia sociale e della psichiatria.

 

Questi nessi hanno l’effetto di un’apertura di senso rispetto al dibattito sulla pena oggi. Altri ancora attendono di essere messi in evidenza. Ad esempio quelli con le ricerche di René Girard sul meccanismo, arcaico ma sempre vivo (forse sempre più vivo), della persecuzione e del sacrificio che trova soluzione nel “capro espiatorio”.

 

Inquadrare all’interno di questo perimetro ampio il dibattito penalistico odierno è indispensabile a “problematizzarlo”, come in modo puntuale e opportuno raccomanda Fiandaca.

 

Il secondo merito del volume è infatti quello di riassumere (senza mai banalizzare) i termini dottrinari, legislativi e giurisprudenziali in cui si articola il tema della pena giudiziaria oggi in Italia, della sua funzione e, parallelamente, della sua efficacia. I vari paradigmi – quello retributivo, quello preventivo di carattere generale e preventivo specifico, oltre a quello rieducativo di cui all’art. 27 Cost. – vengono descritti nella complessa trama dei loro reciproci intrecci.

 

La funzione retributiva della pena non risulta abbandonata – né in recessione – sia sul piano teorico che giurisprudenziale che genericamente socio-culturale. Ci ricorda l’Autore che essa non è solo – ma certamente è anche, almeno a livello di comune sentire – espressione di rancore e rabbia in reazione al delitto e mantiene ancora oggi un legame non recidibile con questa dimensione psicologica istintiva.

 

Gli approcci teorici neoretribuzionisti tendono oggi a convergere e confondersi con quelli preventivisti e in particolare con l’altra classica funzione attribuita alla pena, quella di strumento di prevenzione generale. Funzione retributiva e funzione preventiva generale (dissuasiva verso la generalità della comunità) si saldano, in molti degli indirizzi giusfilosofici contemporanei, a delineare quasi una funzione di pedagogia sociale consistente nell’orientare la società in senso favorevole alla ripulsa attiva del crimine e alla valorizzazione delle ragioni delle vittime del crimine stesso.

 

Questi indirizzi, nella loro proiezione sociale, ci riportano immediatamente alla funzione ideologica svolta dalle diffuse mobilitazioni contro la criminalità organizzata, spesso promosse dalle istituzioni, altre volte da ong o intellettuali, scrittori, giornalisti televisivi, ecc. che sono diventate ormai – oltre che un mercato - anche una costante anche nella vita di intere comunità scolastiche, soprattutto nel Sud.

 

 E, parallelamente, ci invitano alla riflessione sulla presenza, sempre più pervasiva, di associazioni di vittime di varie forme di criminalità, spesso in competizione fra loro per la conquista di spazi di informazione e comunicazione, accomunate tutte dalla richiesta di retribuzione.

 

È significativo come queste tensioni attraversino tutte le fasi genetiche ed evolutive della pena: quella della predeterminazione legislativa, quella del giudizio penale vero e proprio – con il momento cruciale della applicazione della fattispecie al caso specifico e della concreta determinazione quantitativa - e infine quella dell’esecuzione.

 

L’Autore ha un fin troppo matura consapevolezza dei principi liberali dello stato di diritto per non cogliere con allarme i rischi insiti in tali pretese pedagogiche, molto facili a sfociare in “visioni autoritarie della democrazia”

 

Al contrario, le previsioni dell’art. 27 Cost. in materia di rieducazione e recupero sociale del reo – insieme ad una stratificata e consolidata giurisprudenza costituzionale – rappresentano un punto di riferimento non equivoco per l’operatore del diritto e per quello del sistema penitenziario, ma si scontrano con una realtà, quella delle carceri italiane, che sembra oggettivamente e sempre più incompatibile con questa chiara previsione costituzionale.

 

L’Autore, riportando preziosi referti della propria personale esperienza di garante regionale dei diritti delle persone detenute, avverte il lettore del forte rischio di astratto utopismo che correrebbe chiunque ritenesse facilmente praticabile questa via per un generale rinnovamento del sistema punitivo italiano.

 

Alla funzione di prevenzione specifica (cioè operante nei confronti dell’autore del delitto) si collega infine lo stimolante movimento in favore di una “giustizia riparativa” che – dopo numerose sperimentazioni - ha trovato recentemente spazio nella nostra legislazione penale attraverso la riforma Cartabia (d. lgs. 150/2022). Il paradigma riparativo – di origini ed ispirazione religiose -  si differenzia radicalmente da quello punitivo in quanto persegue la finalità di raggiungere, attraverso istituti di “mediazione penale” fra attore e vittima del delitto, un pieno recupero della relazione interpersonale fra i due soggetti.

 

Certamente affascinante sul piano filosofico, questo tentativo di andare oltre l’orizzonte della pena presenta intuibili difficoltà attuative a cui la riforma Cartabia ha cercato di dare una prima risposta: interazione fra giustizia riparativa e giustizia penale, rischi di comportamenti opportunistici, acquisizione delle competenze necessarie a guidare il processo di mediazione, ecc.

 

Tuttavia è importante porre la dovuta attenzione ad un altro rischio, che accomuna la “giustizia riparativa” e lo stesso paradigma rieducativo: quello di presupporre una visione unica e condivisa delle relazioni sociali e della morale. Quale è il momento in cui la “rieducazione” o la “riparazione” possono ritenersi raggiunte? Quando, sul piano oggettivo, colui che ha commesso il delitto offre prova di questo, ovvero quando in modo più profondo egli dimostri di aver abbandonato la visione morale e delle relazioni sociali che lo ha portato a delinquere?

 

Dalla risposta a queste, e consimili, domande dipende la fedeltà ad un modello pluralista di società ovvero lo scivolamento eticista verso modelli più o meno autoritari la cui immagine ci viene – oggi più che mai – minacciosamente rinviata dal mondo dei media e dallo stesso dibattito politico saturi ormai di motivi populisti e regressivi.

 

Il libro di Fiandaca si conclude con pagine amare sulla condizione delle carceri italiane, sulla statistica sinistra dei suicidi di detenuti e sui tremendi segnali (non registrati ancora da alcuna statistica ufficiale) della diffusione crescente di disagio mentale e di patologie psichiatriche, anche gravi, lasciate prive di cure mediche. 

 

Lo sguardo problematico del liberale autentico, che non può rinunciare ad una componente robusta di realismo, segna di una vena pessimistica queste densa e attualissima meditazione sulla pena. 

 

 


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