Con Il costruttore e il giocatore (Feltrinelli, pp.432; 2025), lo storico dell’economia Luciano Segreto ha il merito di aver fornito una ricostruzione delle vicende legate all’ascesa e al declino del Gruppo Ferruzzi fondata su un’attenta lettura di documenti finora non disponibili. Ne è derivato un racconto che si discosta non poco da quello che a lungo è stato proposto da gran parte del giornalismo, permettendo fra l'altro di ricavare una diversa lettura pure degli esiti giudiziari che portarono alla dissoluzione di uno dei principali attori economici italiani, “per fatturato dietro solo al gruppo Fiat”.
Il saggio esamina quasi mezzo secolo di storia dell’impresa fondata da Serafino Ferruzzi nell’immediato dopoguerra e presto trasformatasi da azienda leader del trading di cereali nel secondo gruppo industrial-finanziario del Paese.
Non deve, tuttavia, sorprendere che dei dieci capitoli che compongono il libro solo i primi due siano dedicati alla fase della costruzione, durata oltre trent’anni, mentre ben otto riguardino gli ultimi quindici anni della gestione di Raul Gardini, che assunse la guida del gruppo dopo la morte del suo fondatore nell’incidente aereo del 10 dicembre 1979. Come spiega nelle conclusioni l’autore, i due periodi vanno nettamente distinti essendo “fortemente impregnati dello stile imprenditoriale, ma prima di tutto del carattere delle due personalità che hanno segnato i due momenti”.
Differenze che sono ben riassunte dal titolo scelto – Il costruttore e il giocatore – a evidenziare la opposta natura dei protagonisti di questa storia imprenditoriale, che ha assunto connotazioni tragiche assai più prossime all’ambito letterario che non soltanto economico. Quella della Ferruzzi è, nella prima fase, quasi un’epopea – dove il coraggio si sposa alla determinazione – e si trasforma nella seconda fase in un dramma che vede esplodere contraddizioni e limiti, concernenti sia l’assetto strutturale del gruppo industriale e sia i risvolti caratteriali e psicologici che condizionavano l’operato di Raul Gardini.
Su un punto è fin dall’inizio chiaro l’autore: l’affondamento della multinazionale sorta dal lavoro di Serafino Ferruzzi, a partire dall’inchiesta Enimont per finire quindi all’espropriazione finale attraverso SuperGemina, per essere davvero compreso va inquadrato nella gravissima crisi economica e nell’avvio delle privatizzazioni del 1992. La partita finanziaria, con relative scalate e operazioni di riassestamento sotto la regia di Mediobanca, come pure i processi sulle tangenti sono tutti elementi del più complesso e ampio contesto che ha portato alla de-industrializzazione dell’Italia.
Luciano Segreto descrive con cura le tappe che portano alla fine dell’impero Ferruzzi-Gardini, un declino che subisce un’accelerazione all’inizio degli anni ’90, non mancando di notare come l’informazione abbia in qualche modo mancato di riferirne compiutamente, preferendo dare “rappresentazioni in parte deformate dei fatti”, anche perché spesso tanta parte del giornalismo nazionale era subalterno dello stesso Gotha finanziario di cui avrebbe dovuto occuparsi.
Prova ne sia che mentre le mosse di Mediobanca che conducono all’espropriazione di fatto erano presentate sulla stampa italiana come “una grande occasione per l’industria” o “una risposta del sistema paese per il futuro”, invece “il «Financial Times» presentò l’operazione in modo molto irriverente, parlando di spaghetti merger, una soluzione all’italiana, ‘una deprimente miscela di incesto e insularità’ che avrebbe dato vita a ‘un nuovo mostro’”.
Lo stesso vale per la narrazione - sottolinea Segreto -, prevalentemente avvolta da un alone apologetico, con cui si descriveva l’azione di Raul Gardini presentato ora come il campione dell’Italia del fare in opposizione a una classe politica parassitaria, ora come un carismatico capitano d’industria dalle grandi visioni.
In realtà, dal saggio di Segreto emerge una figura ben più problematica dai tratti contrastanti che l’autore non esita a paragonare al dr. Jekyll, il personaggio dalla duplice personalità di Robert L. Stevenson.
Se un dato oggettivo può dedursi dalla lettura di questo saggio è che, al pari di gran parte dei principali esponenti del capitalismo italiano, anche in Gardini difettava la dimensione strategica privilegiando piuttosto una competizione che si risolveva entro l’orizzonte del proprio successo personale. Nondimeno, questa era una disposizione che conteneva in sé una debolezza di fondo perché non comprendeva la natura profondamente anomala del nostro Paese sul piano economico, contraddistinta dall’estraneità alle regole di un vero libero mercato.
Un’incomprensione fatale perché nel concreto impediva di adottare le misure necessarie per far fronte a una proiezione internazionale, che richiedeva necessariamente un sistema-paese alle spalle. Né a tali limiti la gestione di Gardini provò a porre rimedio, laddove guardava con sdegnosa sufficienza alla dimensione politica e si affidava compiaciuto alla retorica giornalistica che lo voleva tra i quattro cavalieri del capitalismo nostrano.
Quando il gruppo Ferruzzi si è affacciato alla prospettiva di esercitare un ruolo ambizioso a livello internazionale, esso non disponeva dell’adeguata consapevolezza del contesto geopolitico nel quale andava a muovere la sua azione. In ciò vanno, a nostro avviso, individuate le ragioni della caduta, per cui “un impero che comprendeva settori molto diversi… non esiste più o… è finito nelle mani di gruppi industriali stranieri”. Un finale che lascia amarezza in chiunque sappia riconoscere la grandezza di un’impresa e poi debba assistere al suo precipitare: per questo, giustamente, l’autore conclude che tale finale “non può che essere definito triste”.
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