di Adriana Dragoni
Da alcuni mesi fervono a Napoli iniziative di tipo culturale, più o meno valide. Troppo dispersive, però. Forse dovrebbero utilmente organizzarsi intorno a un centro comune, che potrebbe essere la stessa Napoli, la sua identità, la sua storia.
Riguarda appunto la storia il convegno, al Museo Archeologico Napoletano, “Sembrano pietre ma sono radici. Viaggio nella Napoli delle pietre di spoglio e della musica napoletana”. Vi si è presentata la cerimonia della Lampadoforia, alla quale alcune associazioni cittadine, coordinate dall'Associazione dei Sedili di Napoli, hanno ridato vita. La Lampadoforia non si celebrava da quattrocento anni, dal tempo di Napoli capitale del Vicereame spagnolo. Ricorda la nascita, tra il VI e il V secolo avanti Cristo, di Neapolis, cioè la Nuova Città, sorta attigua alla città di Partenope, della quale ereditò il nome; di conseguenza, la vecchia Partenope fu chiamata appunto Città Vecchia, cioè, in greco, Palepoli.
“Errat si quis extimat servitutem in totum hominem ...” Queste parole di Seneca, tradotte, suonano pressappoco così: “Sbaglia chi crede che la servitù prenda l'uomo intero: i corpi sono soggetti e asserviti ai padroni; ma la mente, invece, padrona di se stessa, è tanto libera che può pensare cose grandi e vagare nell'infinito, compagna degli dei.” Seneca, che scrive al tempo dell'imperatore Nerone, si riferisce con queste parole agli uomini fatti schiavi di guerra dai Romani vincitori. Possiamo però adattarle ai tanti di noi che, in questi tempi di crisi, fatti schiavi da situazioni difficili e dolorose, riescono a volte a liberarsi dal loro peso e a uscire dalle strettoie delle difficoltà e del dolore, trovando nelle cose belle, nella conoscenza, nell'arte e nella storia, soprattutto in quella della propria città, una certa consolazione e una speranza.
Quest'osservazione è suggerita dalla conclusione del discorso tenuto, ad apertura del convegno, da Marco de Gemmis, Direttore della Sezione Didattica del Museo Archeologico Nazionale Napoletano. De Gemmis chiarisce che il MANN sostiene la celebrazione della Lampadoforia perché vi ha trovato un valido contenuto culturale. E rivendica l'attività della sua Sezione didattica, che porta agli alunni delle scuole la conoscenza della storia del luogo dove vivono e, attraverso questi alunni, ai loro genitori, molti dei quali (purtroppo è vero) non sono mai entrati nel MANN, il loro museo, quello che conserva le radici culturali di Napoli e di tutto il mondo occidentale. Poi de Gemmis conclude dicendo che girare la città, osservarla e viverla conoscendo la sua storia, può essere, in questi tempi difficili, realmente consolatorio e stimolante per un futuro: la cultura non è un peso, ma gioia e ricchezza.
Poi lo scrittore Antonio Corradini ci parla delle antichissime raffigurazioni di tre sirene alate, che -si racconta- andarono a morire sulle coste campane per amore. Partenope, la più bella delle tre, arrivò dove poi fu fondata la città che prese il suo nome. Dove fu sepolta questa sirena? Nell'isolotto di Megaride, dove ora c'è Castel del'Ovo (l'uovo che Virgilio avrebbe posto nelle sue fondamenta)? Oppure sotto la basilica di San Giovanni Maggiore? Oppure a Forcella, che conserva, nella sua forma, anche il simbolo a “y” di Pitagora?...chissà. Le sirene, si sa, cantavano straordinarie melodie, tanto attraenti che chi le ascoltava sarebbe andato a cercarle tra le onde, annegando. E' questa la storia di Ulisse cantata da Omero, il poeta cumano, come testimonia anche la lingua greca di Cuma, nella quale “omeros” significa cieco. E, secondo la tradizione, il vecchio Omero era cieco, un cieco con gli occhi pieni di antiche immagini.
Poi, sulla parete di fondo della sala, scorre un filmato, commentato dal prof. Antonio De Simone, un commento affascinante. De Simone fa notare come la forma generale di Napoli si sia mantenuta, nelle sue linee generali, sempre la stessa: ogni nuovo edificio ha conservato il ricordo, in certo qual modo è il ricalco, di quello più antico. Napoli è una città che è cresciuta su se stessa.
E De Simone racconta delle pietre di spoglio, che “non sono pietre, sono radici”. In molte antiche costruzioni napoletane – osserva - si trovano delle pietre tratte da quelle costruzioni ancora più antiche che, per far posto alle nuove, erano state abbattute. Tempo fa mi fu detto: “guarda la torre campanaria della Pietrasanta, è del tempo del Ducato di Napoli ( VIII /XII secolo): vi si trovano inseriti dei frammenti architettonici molto più antichi; significa che allora i Napoletani erano talmente poveri che dovettero usare delle vecchie pietre.” Ma il prof. De Simone ci dice, invece, che i Napoletani di allora usavano le pietre più antiche per testimoniare le costruzioni di cui queste pietre avevano fatto parte e per ricordare gli uomini, i loro antenati, che in quel più antico tempo erano vissuti. Ancora adesso a Napoli i morti non muoiono mai.
Una mentalità, questa dei Napoletani antichi, del tutto opposta alla concezione, di Condorcet e di Voltaire, di un tempo che del passato fa tabula rasa ed è come una semiretta volta verso il futuro. De Simone ci dà le prove delle sue affermazioni. E ci mostra, ad esempio, nello spigolo di un caseggiato che fa angolo con il vico Figurelle, un incavo formato evidentemente apposta per contenervi una colonna antica. E ci mostra la pietra di un muro di San Gregorio Armeno, la famosa strada dei pastori, con l'antica effige della canefora (= donna che porta doni), di cui ha scritto Maurizio Ponticello ne “Il giro di Napoli in 501 luoghi”. E cita il caso della tomba, al tempo del ducato, del duca Teodoro, che è sormontata da una testa greco-antica. “Non sono pietre, sono radici”. E ha radici antichissime anche la musica napoletana, e ne parla Romeo Barbaro, un suo cultore appassionato, uno dei tanti.
E antichi sono anche i Sedili napoletani, ciascuno dei quali consisteva nell'organizzazione sociale di un rione cittadino. Scomparvero nei primi anni del diciannovesimo secolo ed erano evoluzione delle antiche Fratrie greche. Ancora oggi, o appena fino a ieri, c'era, a Napoli, questa stretta coesione tra la gente dello stesso quartiere, dello stesso vicolo e anche dello stesso palazzo, fatta di storia comune, di idem sentire, di continua e fraterna vicinanza, del vivere insieme; coesione che ora tende a essere infranta anche dall'immissione di molto numerosa gente straniera.
L'Associazione dei Sedili, insieme ad altre Associazioni, ha sostenuto la protesta della Deputazione di San Gennaro, una associazione laica composta da quei nobili napoletani, ai quali, dal 1601, il tesoro del Santo è stato affidato. La Deputazione ha vigorosamente protestato, sostenuta da una gran folla di popolo, al decreto del ministro Alfano che contemplava l'inserimento in essa della Curia napoletana e, in pratica, il suo asservimento a questa. Protesta a furore di popolo, di cui ha parlato anche la Stampa estera.
San Gennaro è uno dei simboli di questa città solare e misteriosa, uno spirito che la anima ed è sostanza della fede di questo popolo. Non si può strappare l'anima di una città senza che questa, pur dormiente, se ne accorga. Napoli è una città di antica religiosità, ma ha una religione laica, cioè non ecclesiastica. Oltretutto fino all'ottavo secolo non faceva parte della Chiesa Romana. E anche oggi l'esistenza e la nuova costruzione di tante cappelle votive nelle strade lo testimonia. Si racconta che, nel 1497, Alessandro Carafa si andò a riprendere le reliquie del Santo dall'abate di Montecassino con le armi in pugno, senza riguardo.
E si racconta che, nel 1947, fu Giuseppe Navarra, “il boss di Poggioreale”, insieme a un nobile della Delegazione, ad andare a riprendere, attraversando luoghi pericolosi, il tesoro di San Gennaro dal Vaticano, dove era stato conservato durante la guerra. L'uomo della Camorra non volle ricompensa alcuna. Mentre ora sembra che mani adunche si tendano verso il Tesoro per impadronirsene. Peraltro questo tesoro è formato soprattutto dalle donazioni dei Napoletani. Mala tempora currunt. C'è tanta mistificazione tra quelle che dovrebbero essere “le persone perbene”.... Ma il tesoro di san Gennaro più importante è il suo sangue, che si scioglie, ogni anno, il 16 dicembre, il 19 settembre e il sabato prima della prima domenica di maggio.
Così nell’ultima processione di San Gennaro, con il sangue subito disciolto (ritenuto un ottimo auspicio), con la statua del Santo e di quelle dei tanti Santi copatroni, con le tonache del clero e dei frati, è partita dal Duomo per portarsi alla chiesa francescana di Santa Chiara. Passando anche per la piazza di san Domenico Maggiore che ha tanti caffè e tavolini all'aperto, con tanta gente e tanti turisti. I quali guardavano affascinati.
Poco dopo gli stessi turisti erano spettatori di una processione diversa. Di gente vestita alla greca che celebrava, con la Lampadoforia, la nascita della città. C'erano uomini vestiti da guerrieri e donne danzatrici e musici e bambini. C'era la sirena Partenope, coperta di veli e conchiglie. E c'erano i canti e il grido di un capopolo: “Neapolis”; e la risposta del coro: “Atanatos”. “Napoli immortale”.
I clienti dei caffè erano entusiasmati e piuttosto sbigottiti. Poi nell'antica agorà, ora piazza San Gaetano, c'è stata la premiazione della staffetta di atlete che portavano lampade accese.
E' stato un avvenimento importante: la comunicazione a tutti, napoletani e turisti, che Napoli è la città della Magna Grecia che, unica al mondo, conserva (per poco note vicende storiche) quella grande civiltà. Ed è una città ancora viva. Con la sua laica religiosità e la sua religiosa laicità.
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