Francesco Lo Savio (1935-1963) fu un grande artista romano apprezzato solo da una élite culturale, che forse per la brevissima carriera svolta, dal ’58 all’inizio del ’63, peraltro avuta in giovanissima età, tra i 23 e i 28 anni, è rimasto poco conosciuto. Come per non smentire il suo strano destino, ironia della sorte, è celebrato in questi giorni al Mart di Rovereto, come un confinato al quale i tirolesi dedicano una mostra antologica.
Pressoché ignorato nella sua Roma dove viveva, con le sue opere ha anticipato molto di quello che sarebbe stato negli anni a venire. Era il periodo dell’imminente grande successo della così detta Scuola di piazza del Popolo, movimento che individuò quella tematica figurativa che recentemente abbiamo affrontato con la recensione in Agenzia Radicale su Cesare Tacchi, uno tra gli esponenti più significativi di tale corrente.
Francesco Lo Savio, forse perché di carattere molto riservato e schivo, non aderì a quello che era in voga e si trovò in posizione isolata in anni in cui gli artisti si proponevano in correnti o in gruppi come nella nuova ondata della musica leggera. Proprio in quel periodo, per avere un’idea di quell’atmosfera artistica, si stavano esaurendo i movimenti informali e i fermenti di area milanese, come Gruppo Azimut, Spazialismo, Fontana, Manzoni, Castellani, o nord europeo, come il Gruppo 0, ecc.
Erano anni in cui gli artisti mitizzavano molto il movimento di Avanguardia degli anni ’15-’30 e si prodigavano anche loro per operare una grande rottura con il passato; caratterizzati da uno sperimentalismo ossessivo, vengono ricordati ai giorni nostri come neoavanguardie. Francesco Lo Savio non era da meno e forse anche inconsapevolmente ebbe il grande merito di avere intuito un corso dell’arte totalmente nuovo, fatto su una ricerca della purezza e dell’essenzialità che divennero le caratteristiche rilevanti del minimalismo e dell’arte povera, che vedremo affermarsi solo qualche decennio successivo alle sue opere.
Un genio anticipatore, artista seminale, prodromo di nuovi stili che ebbe la fortuna di essere apprezzato da Emilio Villa, Udo Kultermann, Giulio Carlo Argan, Germano Celant, Palma Bucarelli, forse i più importanti storici dell’arte che si avevano in Italia,che peraltro fecero appena in tempo a conoscerlo, causa la sua prematura scomparsa.
Al Mart di Rovereto troviamo ricostruita la sua ultima mostra romanadel 30 novembre del ’62, alla galleria La Salita di Liverani, dove all’inaugurazione Lo Savio ebbe come visitatori Argan, la Bucarelli e pochissimi altri, mentre i suoi più cari amici, tra cui suo fratello Tano Festa, come pure Schifano, Angeli ecc., ovvero quelli della scuola di piazza del Popolo, non vennero perché rimasero al caffè Rosati, avamposto nella Roma borghese degli artisti che aveva partecipato alla“Mostra di Pittura” per il “Premio Cinecittà”, organizzata dal Partito Comunista Italiano nell’omonimo quartiere nell’ottobre 1958. (Francesco non si chiamava Festa perché prese il cognome dell’ex marito della madre).
Episodio che mette in luce l’avversione che riscontrava anche all’interno degli stessi compagni di sua formazione e origine, esclusione che di certo non lo faceva stare bene. Pochi mesi dopo, anche se ebbe altre mostre in giro per l’Italia e all’estero, in Francia perché infatuato dalle architetture di Le Corbusier che aveva come costante riferimento (forse per le finestre cubiche di Unité d'habitation…), Lo Savio, annientato dalla depressione, si suicida morendo dopo venti giorni di agonia.
Al Mart vediamo cinquanta opere, la metà della sua intera produzione, che ripercorrono tutto il suo percorso creativo dalle ricerche antropometriche, dove sviluppa le misure o i canoni ideali per approfondimenti di origini delle forme, a tutti gli studi per le sue interessantissime opere premonitrici dell’arte. Mi riferisco ai “Filtri”, quadri “invisibili” ottenuti con delle garze frapposte al disegno sottostante che ne sottraggono la forma e la luce, ed ai “Metalli”, sculture fatte di lastre di alluminio piegate ad arco come a offrire tensione e varietà di luce in cubi di cemento: una ricerca formale indirizzata a concetti architettonici come “Maison au soleil”, in uno sforamento disciplinare inconsueto.
Lo Savio tentava così di offrire quella sintesi estrema che è l’essenza più espressiva della forma e della luce, rifacendosi all’esperienza suprematista di Malevic e subendo l’influenza dei Gobbi di Burri.
Una ricerca che lo mise su un livello di riferimento internazionale, non a caso ebbe riconoscimenti da Richard Serra, Donald Juud, Robert Morris che ne implementarono le sue opere in alcune mostre.
Un’antologica ben documentata, frutto della sapiente cura di Silvia Lucchesi, Alberto Salvadori, Riccardo Venturi, piena di molti materiali provenienti da archivi tra cui, ovviamente, quello di Francesco Lo Savio, che corre sul filo di un understandment costante, che è quello delle vicende artistiche che lo hanno contraddistinto.
Francesco Lo Savio
a cura di Silvia Lucchesi, Alberto Salvadori, Riccardo Venturi
Mart Rovereto
5 novembre 2017 / 18 marzo 2018
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