di Antonio Trinchese
Il Museo Nazionale Romano delle Terme di Diocleziano ospita, fino al prossimo 21 aprile, una prestigiosa esposizione di reperti archeologici dal titolo “Dacia. L’ultima frontiera della Romanità”. Si tratta di oltre 1000 oggetti provenienti da vari musei rumeni e moldavi, che testimoniano lo sviluppo storico e culturale dell’antica Dacia in un arco di oltre 1500 anni, dall’VIII secolo a.C. all’VIII secolo d.C..
La mostra, curata da Ernest Oberlander, direttore del Museo Nazionale di Storia della Romania, e da Stéphane Verger, direttore del Museo Nazionale Romano, è stata realizzata grazie all’Ambasciata di Romania in Italia e con l’Alto Patronato del presidente della Romania e del Presidente della Repubblica italiana.
Il percorso di visita dell’esposizione inizia con un calco di una scena scolpita sulla Colonna Traiana, con scene di combattimento tra Daci e Romani, e continua con capolavori quali la raffigurazione in marmo del dio-serpente Glykon da Tomis, divinità guaritrice; lo straordinario elmo tracico d’oro di Cotofenesti, con varie scene in rilievo; l’elmo celtico di bronzo di Ciumesti, col sorprendente cimiero a forma di aquila; il tesoro gotico di Pietroasele, con l’eccezionale phiale (coppa) d’oro lavorata a sbalzo, e con altri gioielli ed oggetti dei vari popoli che hanno abitato l’antica Dacia nel corso dei 16 secoli coperti dalla mostra.
Tra questi popoli, oltre ai Geti, Daci, Traci, Goti, Celti e Romani, vi erano anche i Sarmati, di cui vengono esposti numerosi oggetti ed armi: popolo di cavalieri delle grandi pianure euroasiatiche, di lingua iranica, temuti nemici dei Romani, ma poi anche arruolati nelle fila dell’esercito romano come cavalleria pesante, dotati di armature, lance e lunghe spade.
Con il tempo si fusero con vari popoli, trasmettendo loro elementi culturali, in particolare per quanto riguarda l’arte della guerra a cavallo: in essi si intravede la nascita della cavalleria medievale. Gli unici a conservare l’antica lingua dei Sarmati, e il loro patrimonio mitologico, sono gli Osseti del Caucaso.
La similitudine tra alcune saghe degli Osseti e alcune leggende arturiane ha fatto pensare ad una trasmissione di tali racconti in Gran Bretagna da parte proprio dei Sarmati, che dalle regioni della Dacia o con essa confinanti furono massicciamente trasferiti nella Britannia romana quali truppe ausiliarie dall’imperatore Marco Aurelio, nel 175 circa, anche perché era presente in Britannia in quel periodo un alto comandante romano dal nome simile ad Artù, Artorius (Lucius Artorius Castus). Sappiamo dall’epigrafe che riporta la carriera di Artorius Castus che, nei primi tempi del suo servizio militare, egli fu anche in Dacia, a Potaissa, quale centurione della legione V Macedonica.
Quello che sorprende, però, è che il percorso di visita della mostra sulla Dacia Romana inizi proprio da un monumento attribuito ad un Artorius, ovvero il sepolcro cosiddetto dei Platorini.
Si tratta di un mausoleo, di oltre 7 metri per 7, venuto alla luce nel 1880 sulle sponde del Tevere, nei pressi di Ponte Sisto, poi nel 1911 smontato e ricostruito nell’aula X del Museo Nazionale Romano, esattamente da dove parte la visita alla mostra di cui parliamo.
Sulla base di un’iscrizione rinvenuta integra nel luogo originario del mausoleo, esso fu attribuito a Caio Sulpicio Platorino, forse il triumviro monetale (magistrato dell’ordine equestre addetto al conio delle monete) dell’anno 18 a.C., o un suo nipote omonimo. Quella di Platorino, però, non era l’unica epigrafe ritrovata con il mausoleo: le altre citano vari personaggi che vantano di essere discendenti Caio Sulpicio Platorino, tra i quali Quinto Marcio Barea Sura, sposato con Antonia Furnilla.
Una figlia di questa coppia fu Marcia Furnilla, moglie dell’imperatore Tito, mentre un’altra figlia fu Marcia, madre dell’imperatore Traiano, conquistatore della Dacia. Attraverso loro, furono discendenti di Artorius Geminus anche Vibia Sabina, moglie di Adriano (si pensi al tempio di Adriano e Vibia Sabina in Piazza di Pietra) e gli altri imperatori Marco Aurelio e suo figlio Commodo.
Marcus Artorius Geminus è un personaggio noto anche da un’altra epigrafe, rinvenuta sempre a Roma, ma nel tempio della Concordia, consacrato da Tiberio il 16 gennaio dell’anno 10 d.C.. Si trattava di un “legato”, ovvero comandante di legione, quindi appartenente all’ordine senatorio, che assunse poi l’incarico di praefectus aerarii militaris, ovvero uno dei tre magistrati addetti all’amministrazione finanziaria e patrimoniale di tutto l’esercito dell’Impero.
Un’epigrafe di Marcus Artorius Geminus, forse lo stesso personaggio o il suo genitore omonimo, fu rinvenuta nell’isola greca di Delo, e un Marcus Artorius Asclepiades fu medico e amico di Augusto. Il più elevato ceto sociale, le più importanti cariche rivestite, la menzione del suo nome anche a distanza di generazioni fanno presumere che il committente del mausoleo sia stato proprio Artorius Geminus e non Platorino, probabilmente parente acquisito di Artorius e sepolto nel mausoleo di quest’ultimo.
(Il mausoleo degli Artorii, con la statua di Marcus Artorius Geminus e della moglie, erroneamente attribuito, come le statue, ai Platorini)
Con il mausoleo furono rinvenute anche urne funerarie in marmo finemente decorate, monili (in parte non più rintracciabili), una scultura in marmo raffigurante la testa di una giovane donna e due imponenti sculture raffiguranti un personaggio maschile (rappresentato in “nudo eroico”, tipico degli imperatori del I secolo) e uno femminile, nonché notevoli fregi ornamentali.
Tutti questi elementi sono stati analizzati con precisione dalla studiosa Francesca Silvestrini, nel suo lavoro “Sepulcrum Marci Artori” del 1987. Ebbene, quali informazioni vengono date ai visitatori del museo e della mostra sulla storia del mausoleo? Nessuna! Anni fa era esposta una targa esplicativa che parlava del ritrovamento dell’edificio sulle rive del Tevere e della sua ricostruzione, senza però minimamente citare il personaggio principale, Marcus Artorius Geminus. Però le epigrafi che riportano il nome di Artorius Geminus per ora non sono ben visibili, trovandosi sul muro posteriore, difficilmente accessibile perché chiuso da un cordone.
(foto amatoriale del 2009)
Il testo delle epigrafi ritrovate con il sepolcro e trascritto a suo tempo dagli studiosi è il seguente: “C(aius) Sulpicius M(arci) f(ilius) Vot(uria) Platorinus / sevir / Xvir stlitibus iudic(andis) / Sulpicia C(ai) f(ilia) Platorina / Corneli Prisci // Antonia A(uli) f(ilia) Furnilla Q(uinti) Marcii / Q(uinti) f(ilii) C(ai) n(epotis) C(ai) et Gemini Artori / pronepotis Bareae Surae // ] / Xvir stl(itibus) iud(icandis) tr(ibunus) mil(itum) q(uaestor) tr(ibunus) pl(ebis) pr(aetor) / leg(atus) Ti(beri) Caesaris Augusti et / C(ai) Caesaris Augusti / Crispina Caepionis f(ilia) uxor / M(arcus) Septicius Q(uinti) f(ilius) C(ai) n(epos) C(ai) et Gemini / [Artori pronepo]s Sur[a] / [3 men]sibus X d(iebus) [ // ]OSTES[3] / [3]ASEN[3] / [3]stum ce[3] / [3 s]evir() has[3] / [3]o sacer[3] / [3]F P[3] / [3 Arto]ri Gem[ini”.
Attualmente è visibile solo questo: “C(aius) Sulpicius M(arci) f(ilius) Vot(uria) Platorinus / sevir / Xvir stlitibus iudic(andis) / Sulpicia C(ai) f(ilia) Platorina / Corneli Prisci …………………………………….s]evir() has[3] / [3]o sacer[3] / [3]F P….
(foto amatoriale del 2009)
Il visitatore, quindi, può ammirare le pregevoli urne funerarie, la scultura della testa femminile, le due notevoli statue, di cui però è riportata l’attribuzione a Caio Sulpicio Platorino e figlia, mentre con tutta probabilità raffiguravano Marcus Artorius Geminus e consorte, e leggere l’epigrafe concernente sempre i due Platorini, collocata arbitrariamente dai ricostruttori sopra la porta di ingresso: nulla ci dice, in realtà, che tale iscrizione fosse originariamente collocata in quella posizione.
Si perde, quindi, tutto il valore informativo che davano le epigrafi e il legame del monumento con la figura del personaggio principale, nonché con la sua discendenza imperiale: resta un monumento anonimo, esteticamente apprezzabile, ma storicamente inesatto, privato del suo reale significato. Basterebbe riportare, quanto sopra ricordato, in una targa esplicativa o rendendo possibile poterle vedere dove sono sistemate, per rendere il giusto valore storico del monumento.
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