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26/11/24 ore

Antologia Rezza-Mastrella: dalla frammentazione alla frazione



Si è conclusa domenica 19 gennaio , con un’ultima rappresentazione, l’Antologia Rezza Mastrella al Teatro Vascello: quattro spettacoli (Fotofinish, Bahamuth, 7-14-21-28 e Fratto X) firmati dal duo che ha rivoluzionato il linguaggio della performance teatrale. La celebre coppia conclude i quaranta giorni, dieci per ciascuno spettacolo, con cui ha scelto di celebrare il meglio della sua carriera teatrale.

 

Se spettacoli di esordio come “Pitecus” sono in parte incorporati, in alcuni dei loro elementi, in lavori successivi come “Fotofinish”, quantomeno dal punto di vista della trasfigurazione evolutiva del performer, nel conclusivo “Fratto X” Rezza che infilava la testa nei buchi dei lenzuoli è ormai più un ricordo partecipe che una presenza costante: il corpo non s’intravede più dietro le tende a lasciar primeggiare la maschera, ma emerge con una fisicità sempre più aggressiva e toni squillanti, anche grazie al contributo di Ivan Bellavista e di un Habitat che ha superato ormai ogni staticità e fluttua nel buio, conducendo e lasciandosi condurre dai corpi in movimento.

 

L’antologia  ripercorre quindi il viaggio che ha portato Rezza a una destrutturazione sempre maggiore sia del linguaggio che dell’azione visiva. Una crescente esasperazione della presenza e dell’assenza sul palcoscenico, parallela a un Habitat sempre più autocosciente e partecipe, che culmina nei dialoghi con l’improbabile automa che precede l’ingresso in scena dell’attore in “Fratto X”, quasi a voler suggerire una volta per tutte che l’Habitat possiede vita propria, a voler chiarire ogni possibile equivoco con il concetto di “scenografia”.

 

Non tanto la summa di una carriera, quanto il racconto di un lungo discorso, fatto di corto e mediometraggi, film, libri, mostre e spettacoli teatrali, in cui il flusso di coscienza disperatamente cosciente degli autori si è frammentato fino a una frazione che Rezza si limita a semplificare con un gesto, eliminando così la cifra stilistica di un numeratore e di un denominatore ridotti così ai minimi termini da farli incredibilmente coincidere, tanto da non poter più distinguere l’attore dall’Habitat – i quali, appunto, si annientano sotto gli occhi di tutti, sul fratto del palcoscenico.

 

Sta a noi, ora, trovare un’altra strada”, è il commento con cui il duo ha riassunto l’esigenza di sintetizzare i capitoli principali di un lungo e vittorioso percorso, prima di proseguire. “I compromessi sono vicini alla fine del loro percorso ed essere ammirati dai morti è motivo di vanto e di preoccupazione. Mai come ora il nostro linguaggio è attuale”, spiegano nelle poche righe di presentazione dello spettacolo.

 

È difficile immaginare quale strada prenderanno: la capacità di Rezza e Mastrella di stupire il pubblico è ormai conclamata, e guardando sul palco situazioni come quella dell’ormai celebre “La Voce”, frammento di “Fratto X” trasmesso anche dalla Rai con la partecipazione di Neri Marcorè, in cui una coppia interpretata da Antonio Rezza e Ivan Bellavista litiga furiosamente perché la moglie scopre che è il marito a prestarle la voce coprendosi il volto, mentre lei muove solo le labbra, ci si chiede come sia possibile andare ancora oltre nella rappresentazione del(l’in)comunicabile.

 

Del resto, già in “7-14-21-28” le celebri litanie onomatopeiche di Rezza esemplificavano, in modo altrettanto emblematico dei suoi mono-dialoghi surreali, una fotografia del dialogo che ne metteva in risalto impietosamente i limiti, mettendo in piedi una vera e propria satira della comunicazione orale che trova il suo apice nei monologhi, in cui perfino la comunicazione di sé e con sé fallisce con risultati grotteschi e sorprendentemente comici.

 

In modo altrettanto esilarante, forse soprattutto in “Bahamuth”, è la comunicazione a livello corporeo, la mimica gestuale che Rezza prende di mira con le sue silenziose contorsioni fisiche e facciali, scoprendo una caricatura a tutto tondo dell’essere umano il quale, dalla sua condizione di spettatore, può finalmente liberarsi dall’ansia di sembrare e guardarsi, se non dentro, quantomeno inevitabilmente fuori, con una risata liberatoria.

 

E forse è anche per il bisogno irrefrenabile di ridere di sé e del mondo che un pubblico sempre maggiore ha inseguito Antonio Rezza fin dall’inizio con crescente curiosità, interrogandosi su come avrebbe inscenato, in modo sempre più paradossale, la sua parodia della società che arriva a prendere in giro l’esistenza stessa, in cui ogni categoria del giudizio esce stremata e in condizioni di resa dai suoi monologhi spietati che galleggiano in un Habitat che supera, a sua volta, la parodia della realtà.

 

Una parodia che non fa sconti, che fa a pezzi ogni forma di riscatto, dall’umano al divino, rimandando a una condizione esistenziale disperante, in cui l’uomo si interroga senza risposta sui mali della civiltà e sull’ultima, inevitabile frazione, come Rezza evoca senza timore chiedendosi perché gli innamorati si ostinino a guardare l’orizzonte, “l’immenso fratto” che ci ridurrà ai minimi termini.

 

Ma è proprio questa la forza di Rezza, l’antico segreto dei giullari medievali, che stando attenti a non rinunciare mai alla dimensione popolare riuscivano a far ridere il pubblico ricordando loro la peste che incombe, grazie alla magia del berretto a sonagli che consente al matto di dire la verità.

 

Camillo Maffia

 

 


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