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23/12/24 ore

“Life in progress”: l'addio alle scene di Sylvie Guillem



“Il mio è stato un viaggio lungo e straordinario. Ma ora voglio cambiare direzione.” Ed è così che la più grande stella del mondo della danza sceglie di lasciare le scene, con l'eleganza e l'intelligenza che la contraddistinguono. Lo scorso giovedì 2 aprile Sylvie Guillem ha salutato il pubblico romano, in una serata unica realizzata all'Auditorium Parco della Musica, dove ha presentato il suo “Life in Progress” con cui è in tournée mondiale.

 

Applausi interminabili in una Sala Santa Cecilia gremita e quasi commossa, quando a fine spettacolo nessuno sembrava voler smettere di battere le mani, quasi consegnando all'unico gesto possibile la capacità di trattenerla sul palco. Ancora. Ancora un po'. Ancora il tempo, almeno, di fissare nella memoria degli occhi e dell'anima quel sorriso aperto, sicuro, “pulito”. Inconfondibile. Il suo.

 

Lo stesso sorriso provocatorio e sprezzante, incurante delle inutili costrizioni o limitazioni della propria libertà espressiva, con il quale possiamo immaginare che abbia sbattuto la porta dell'Opera di Parigi, quando a soli 24 anni decise di abbandonare la prigione dorata nella quale era già étoile dall'età di 19 e di trasferirsi nella compagnia del Royal Ballet di Londra. Dove, a proposito, le venne assegnato subito il soprannome di “Mademoiselle No”.

 

Allo sguardo attento di Nureyev non era sfuggita, in principio. E negli ultimi trent'anni non è mai più potuta sfuggire a quello di nessun altro. In tanti hanno parlato delle sue incredibili doti fisiche, del suo corpo flessibile e insensibile alla gravità, delle sue articolazioni in grado di librarsi come fossero ali, sollevandola in apparente completa assenza di peso.

 

Ma la verità è che, probabilmente, a nulla o quasi sarebbe servito un insieme di muscoli d'acciaio e tendini mirabilmente estensibili se non vi fosse stata, sempre e sempre di più, la guida di una mente attiva, di una “testa” mai stanca, mai soddisfatta, mai ferma. Alla ricerca perenne di un modo migliore, di un motivo più valido, di uno stimolo più convincente. Per danzare, sì. Ma non soltanto. Piuttosto per comunicare, per donare e prendere. Per approfondire, capire, trasmettere, divulgare. Perché la danza, la sua, non si è mai accontentata di rimanere negli stretti spazi di un palcoscenico. Troppo angusti e limitati per tutto ciò che c'era da scoprire e condividere.

 

Così, dopo il balletto classico, è arrivata la danza contemporanea e con essa la ricerca, la crescita, il confronto. Per lei che dalla propria arte non si è mai lasciata ingabbiare, per lei che non ha mai smesso di credere nella capacità che ogni persona possiede di migliorare il mondo in cui vive.

 

Per questo il suo lavoro incessante non le ha impedito di diventare un'attivista per l'ambiente, per gli animali, per i Paesi in difficoltà. E chissà che la nuova direzione della sua personale “life in progress” non abbia a che fare proprio con tutto questo.

 

Grandi coreografi e danzatori l'hanno affiancata, nel tempo, in esperienze sempre nuove: Akram Khan e Russel Maliphant ne sono il più recente esempio. A loro si devono le creazioni di due dei pezzi del tour di addio della Guillem: “Techne” e “Here and After”, rispettivamente.

 

Il “Duo” maschile dello spettacolo ha la firma di William Forsythe, mentre Mats Ek ci regala “Bye”, simbolicamente, in chiusura. Ci sorprende ogni gesto, mai casuale, di questo memorabile dono finale. Tensione, sospensione. Ombre che cadono sul distendersi della memoria, fluttuanti. Tutto sembra fondersi, senza sforzo, all'energia dei corpi e della musica. Sorprendente vederla sulla scena con un'altra donna, la ballerina del Teatro Alla Scala Emanuela Montanari, nel pezzo di Maliphant. E inevitabile pensare che qualunque altra danzatrice non l'avrebbe fatto. Ma lei non è “gli altri”. Non lo è mai stata e non lo è certamente adesso. Splendida, infatti, è la loro unione sul palco.

 

Alla fine, come nell'immagine che precede il buio nella sala, Sylvie Guillem torna in mezzo alla gente, in mezzo a noi. E' una scelta registica, ma in fondo è anche un po' ciò che ci piace credere. I suoi occhi ci salutano dal fondo del palcoscenico. Lasciandoci un po' malinconici, un po' senza fiato. E un po' più soli.

 

Regina Picozzi

 

 


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