di Giulia Anzani
13 maggio. Poche ore dal debutto in Italia di “Raccontami tutto da capo” con lettura scenica di Giovanni Ortoleva, e a distanza di una settimana dalla prima di “Chamaco. Una storia cubana” con lettura scenica a cura di Angelo Savelli.
Seduti ad un tavolino, sotto ad un albero che ci protegge dal sole primaverile, e con il sottofondo degli uccellini che cinguettano, nella calma del quartiere Rifredi di Firenze e proprio affianco al Teatro di Rifredi: il drammaturgo autore delle due opere Abel González Melo insieme alla sua bravissima interprete Antonella Sara, il direttore del teatro Giancarlo Mordini, la giornalista del Globalist Alessia De Antoniis e, naturalmente, io, munita di app per registrare e qualche domanda per Abel. Le domande sono sia mie che della collega De Antoniis, la sbobbinatura delle risposte è mia responsabilità.
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Immagino tu sia già stato in Italia e ti sarai già fatto un’idea generale. Per prima cosa, quello che m’interessa è l’impatto che hai avuto col pubblico italiano, rispetto alla prima di queste opere: “Chamaco” e “Raccontami tutto da capo”.
L’opera “Chamaco” con l’allestimento di Angelo Savelli, è stata rappresentata in Italia per la prima volta. Non è stato solo un viaggio teatrale ma una sorta di pulsione verso Cuba… una nazione che ha avuto molti legami con l’Italia, in qualche modo le definirei nazioni sorelle. Si tratta di un’opera che ha a che vedere con aspetti marginali e poco conosciuti della vita di Cuba, che però mostrano anche bellezza e tenerezza in un contesto di orrore. Il contesto di questa Cuba che per alcuni è considerata un sistema socialista da seguire e una sorta di esempio, per altri una vera e propria dittatura. La reazione che ho riscontrato nel pubblico italiano è stata di empatia, di apertura e di dialogo. Gli spettatori hanno riconosciuto qualcosa che solitamente non si vede, come dicevo, ed è stato possibile grazie all’allestimento di Angelo che ha fatto arrivare questo spettacolo in profondità.
La caratteristica è stata anche che, al di là del racconto e dell’ambientazione fortemente cubana, vengono fuori conflitti e situazioni universali che affratellano le persone di tutto il mondo. Ho riconosciuto queste emozioni non solo nelle reazioni del pubblico ma anche nell’approccio dell’allestimento, che ha facilitato questa cosa.
E invece l’aspettativa per questa sera qual è?
L’opera che vedremo stasera parla di teatro. “Raccontami tutto da capo” è un’opera sul teatro. Sulla scena ci saranno due attori che parlano della propria vita mentre stanno provando per recitare nel Machbet di Shakespeare. S’intreccia la vita degli attori con la rappresentazione in cui dovranno recitare. Questa è un’opera che parla della possibilità, della frustrazione e della realizzazione personale, di quali sono le vie che cerchiamo per giungere alla felicità. Si tratta di una domanda e una richiesta, come arrivare ad essere felici, che dopo questi anni di pandemia è urgente ed impellente. Quindi è un’opera che affronta quest’argomento e va oltre il tema prettamente teatrale.
A questo punto mi piacerebbe sapere qualcosa sulla genesi delle tue opere: come nascono? Da dove viene l’ispirazione?
“Chamaco” è un’opera del 2004. È stata rappresentata la prima volta nel teatro nazionale di Cuba, poi in moltissimi teatri e in diverse lingue. Parte dal dolore provato per la morte di mio padre, scomparso in maniera violenta e inaspettata. Affronta il tema della perdita di una persona cara in maniera inattesa e della difficoltà che si prova nel non aver potuto dire tutto quello che si doveva dire. Quindi si parla di tutto il non detto, e del dolore che nasce da ciò. Ogni volta che vedo rappresentare quest’opera, vedo nascere la necessità di comunicare. In “Chamaco” ci sono due sistemi di personaggi con molteplici maschere che vanno cadendo e scomparendo. Viene fuori la necessità di trovare legami di comunità tra le persone… è una cosa che ad ogni rappresentazione trovo molto forte.
Per quanto riguarda “Raccontami tutto da capo” nasce come un esperimento quasi estremo, per approfondire e andare a fondo delle molteplici personalità che un essere umano può esprimere. Queste molteplici personalità vengono espresse nella figura dell’attrice e dell’attore. A livello formale l’obiettivo che cercavo di raggiungere è un miscuglio tra narrazione e dramma e sovrapposizione di tempo e spazio, per giungere a quella che per me è molto importante: la sfida continua che devo proporre sia ad attori e attrici, che agli spettatori.
Mi piacerebbe facessimo un passo indietro a come è iniziata la passione del teatro.
Credo che l’amore per il teatro sia nato dalla mia voglia di stare in compagnia, infatti non mi piace stare solo. Il teatro ha rappresentato un modo per stare con gli altri. Negli anni ho fatto sempre più teatro, ho creato ponti, osservato sguardi diversi, ascoltato gli altri. Ho collaborato e creato spazi continui di dialogo, di comunità, di comunione. Il teatro è l’arte per eccellenza che crea la possibilità di condivisione con gli altri nel presente. La possibilità di andare oltre le molteplici realtà, non solo di strada o dell’oggi, ma anche di prospettare delle opzioni e delle proposte per il futuro affinché i nostri figli e nipoti possano essere più liberi. Questo è per me il teatro.
E ora un po’ di background culturale. Sei cresciuto a cavallo tra i due secoli, sopratutto nella Cuba dopo il crollo del muro di Berlino. Qual è la Cuba della tua infanzia e quella della tua adolescenza?
Io ho vissuto negli anni ’80 la mia infanzia e a quell’epoca Cuba era ancora una nazione luminosa. Avevamo l’appoggio dell’URSS e questo significava che pur avendo poca varietà di cibo e di vestiti, di cose materiali, avevamo di che vestirci e di che mangiare. Quando sono andato alle scuole superiori nel decennio degli anni ’90, si è verificato effettivamente un cambiamento e abbiamo toccato con mano la difficoltà. Io e mia sorella siamo cresciuti solo con nostra mamma, che faceva la filologa, e in quegli anni doveva impegnarsi nel fare altri lavori per riuscire a mantenerci.
E poi gli anni ’90 sono stati caratterizzati dalla chiusura e dalla mancanza di libertà. Abbiamo imparato a prenderci gioco della censura utilizzando metafore e sortilegi vari. Dopo quegli anni, con la maturità, ho capito che anche gli anni ’80 sono stati anni difficili, e che in qualche modo hanno preparato quello che poi è successo negli anni ’90. Le difficoltà e le problematiche erano latenti. In quegli anni la gente preferiva non farsi troppe domande… era inquietante farsi troppe domande.
Tu sei cresciuto con Castro. Le generazioni precedenti hanno visto il crollo dei grandi ideali socialisti, con la dittatura e con la diffusione della prostituzione minorile e omosessuale. Una grande ferita nel popolo cubano. Non credo si parlasse molto con questo mondo… tu come sei entrato in contatto con quella che era solo una parte dell’Avana?
“Chamaco” parla proprio di questo. L’ho scritta a 24 anni, nel 2004 appunto. Io vedevo questi ragazzi, miei coetanei, fermi di fronte al Capitolio, all’Avana, in attesa di qualcosa che non si capiva cosa fosse e questo mi incuriosiva molto. Sono rimasto affascinato da questa situazione e ho speso tempo e soldi, ho rischiato anche fisicamente, per entrare in contatto con queste persone, per capire cosa ci fosse dietro quest’attesa, cosa ci fosse “oltre”. Questo mondo s’intuiva ma non si vedeva chiaramente. I ragazzi che vedevo, spesso avevano famiglia ed erano lì per mantenerla, prostituendosi sopratutto (ma non solo) con stranieri.
Quando si fa una ricerca per un’opera bisogna arrivare a uno stato di conoscenza di grande profondità, non ci si può fermare alla superficie. Le storie possono risultare vere solo creando personaggi specifici, intimi, reali. La peculiarità della scrittura e dell’opera teatrale è che noi non scriviamo letteratura “in generale”: noi creiamo un personaggio per un preciso interprete. L’interprete assume in se stesso il personaggio, addirittura sovrapponendosi e sostituendosi ad esso. Uno dei compiti principali di un drammaturgo è di consegnare a un attore, un’attrice, un interprete, il personaggio che abbia la carnalità, che sia riconoscibile. È una responsabilità fortissima che noi, come drammaturghi, abbiamo. Se non consegniamo una persona vera all’interprete, non può arrivare l’universalità che c’è dietro a un personaggio sopratutto se legato ad un paese.
Cuba ha vari periodi ben specifici e ben caratterizzati. In quasi tutti, si evince uno stigma della cultura cubana nei confronti dell’omosessualità, e una forte tendenza alla censura: gli artisti e i drammaturghi rimasti a Cuba hanno dovuto mentire nelle loro opere, e hanno subito vessazioni.
Effettivamente noi veniamo da una cultura estremamente omofoba e machista, e ci sono state situazioni di esilio, di persone costrette ad andare via. Una situazione che ancora adesso esiste e colpisce chi ha opinioni “diverse” perché rappresentano un disturbo interno.
Per quanto riguarda la mia situazione personale, io dal 2006 - anno del debutto ufficiale di Chamaco al teatro di Cuba - vivo a Madrid e per parecchio tempo ogni due anni circa, tornavo a Cuba. Lì ho diretto spettacoli tratti da opere mie o di altri autori, con temi che potevano essere trattati con una certa tranquillità. Con gli anni mi sono reso conto di quanto fosse sempre più difficile rappresentare a Cuba opere, mie o di altri. Moltissime delle mie opere le ho rappresentate altrove, come negli USA, in Spagna, in Uruguay. La vera difficoltà stava nell’affrontare tematiche che approfondivano la nostra storia cubana.
Un esempio riguarda “Fuori dal gioco” (1968) di Heberto Padilla, libro di poesie censurato nel 1971. Padilla morì in esilio: un caso paradigmatico e molto forte. L’opera su questo caso specifico parlava di censura e affrontava la storia e la tradizione cubana… non è stato possibile presentarla a Cuba. Un secondo esempio è quello di “Epopeya”, libro che ha vinto il Premio Nazionale della Drammaturgia, pubblicato nel 2014 e immediatamente ritirato dalla censura. Tutt’ora è impossibile trovarlo e quindi fare una rappresentazione scenica. Dunque a Cuba può passare - anche se il teatro è sempre politico - quando si parla di famiglie pur se disfunzionali o di personaggi più particolari. Ma se si parla direttamente della storia cubana, è completamente diverso… scatta l’allarme.
Comunque, trovo che sia molto importante per me tornare a Cuba e voglio farlo. Io non sto lavorando per il governo cubano ma per la gente, e desidero che le mie opere arrivino al popolo cubano. Ho lavorato e rappresentato opere mie a Miami, la mia “città dell’esilio”, un posto con tante problematiche di tipo tematico, ma in cui è possibile esprimere tutto ciò che si ha da dire. È fondamentale capire che questo è un aspetto di tanti artisti cubani: Cuba non è più quell’isola, non è solo uno spazio fisico: è ormai uno spazio mentale, un luogo al di fuori della stessa Cuba, che abbiamo creato noi artisti cubani che abbiamo lavorato per decenni fuori.
(foto Abel González Melo di Josep Maria Miró)
(Chamaco - foto Renato Esposito)
(Raccontami tutto da capo - foto di Marco Borrelli)