di Maurizio Musu
Presentata in anteprima alla 73° edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino, la serie ha vinto il “Berlinale Series Award”: il primo premio dedicato alla serialità nella storia del Festival che consacra “The Good Mothers” un’opera coraggiosa.
Diretta da Julian Jarrold ed Elisa Amoruso, la serie basata su una storia vera, racconta la storia di tre donne, Denise Cosco (interpretata da Gaia Girace), Lea Garofalo (Micaela Ramazzotti) e Giuseppina Pesce (Valentina Bellè), unite da destini diversi e un’unica volontà: ribellarsi alle regole “patriarcali” dell’organizzazione criminale.
Ad aiutarle la P.M. Anna Colace che, appena arrivata in Calabria, decide di cambiare strategia nella lotta alla criminalità. La Colace decide di aiutare le donne ad uscire dalla cerchia delle loro famiglie; lo deve fare sfruttando quelle debolezze interne tipiche del patriarcato in cui alle donne non è mai dato spazio e modo di emergere.
La questione mette in evidenza con maggior forza la tragicità della realtà femminile annullata dalla 'ndrangheta attraverso un sistema corrotto in cui le donne sono costrette a sposarsi molto giovani e a piegarsi al potere per paura di essere uccise.
Perché non ci si può ribellare, non ci si può innamorare, non si può nemmeno chattare liberamente su Internet in famiglie in cui c'è un solo ruolo indiscusso ed è quello maschile, di un machismo tossico e prepotente.
Il padre-padrone, il fratello picchiatore, sono emblemi viventi di una catena di violenze che si perpetuano di generazione in generazione.
La Colace decide di minare questo principio oppressivo ed omertoso tipico dei clan mafiosi, sfruttando un altro grande principio, l’amore verso i figli.
Da qui la decisione di porgere l’unico salvagente possibile: diventare collaboratrici di giustizia, porgendo in cambio protezione, una casa, la possibilità di ricostruirsi una vita con l’unico vero vessillo di giustizia, la libertà di vivere come donne libere ricostruendo una nuova famiglia.
Accettare non è mai facile perché la paura non fa sconti; perché non è mai facile sostenere una decisone così forte e di rottura; perché denunciare un proprio famigliare non è una decisone che si prende a cuor leggero.
Ma accettare è anche consapevolezza di non voler appartenere ad un sistema mafioso, consapevolezza di essere altro; consapevolezza di identità e femminilità.
È la scelta di tapparsi orecchie e occhi per non cadere nel giogo perverso del richiamo alla famiglia d’origine e appartenenza che, come il canto delle sirene, attrae le proprie donne a sconfessare le accuse secondo il principio unico della inviolabilità e sacralità Famiglia.
Una famiglia che è protezione, inclusione, amore incondizionato, anche per tutte le ribelli che cadono nella tentazione di separarsi da quei vincoli feudatari in cui da sempre si è vassalli del maschio e della sua egemonia.
La scelta diventa uno iato fra ricatto morale e giustizia morale in un filo sottile e fragile in cui la libertà di scelta delle donne è necessitata e contingentata da fattori umani contrastanti.
Appartenenza o disincanto? Rottura o semplice frattura da rinsaldare nel nuovo legame famigliare che non farà sconti a nessuno; vita e morte si dipanano nelle scelte che la trama sviluppa senza l’ausilio di un giudizio morale. Perché la scelta è intima e profonda quanto le cicatrici di ferite generazionali in cui alle donne l’unico spazio concesso è quello di essere, mogli, figlie, sorelle e soprattutto madri.
Emissarie di appartenenza e continuità, in quanto partorienti, sono allo stesso tempo deprivate di identità, voce, pensieri. Le donne possono essere merce di scambio fra clan, niente più. In questa obbedienza silenziosa la Colace (La Giustizia) gioca la sua partita con maestria. Ma non tutto andrà come si spera.
Non c'è spettacolarizzazione del crimine, né delle continue violenze verso le donne che pure vengono raccontate. Non c'è neanche l'ombra della seduzione o del fascino del male. C'è, piuttosto, la voglia di mostrare reazioni ed emozioni con autenticità e rispetto, senza retorica o ricatto morale.
È uno sguardo inedito quello che offre The Good Mothers: perché mette in evidenza una prospettiva mai esplorata così a fondo e con una ricerca psicologica notevole, che fa a meno del giudizio e di ogni facile scelta manichea (bene/male, giusto/sbagliato), per restituire la complessità di chi vive certe situazioni.
Complimenti alle due registe che hanno saputo dar voce ad un tema così delicato e poco sviluppato nei film come nelle serie tv – vedi gomorra, suburra -, ma soprattutto hanno saputo mettere in evidenza con grande attenzione all’umano, un sistema ancestrale che ancora oggi detiene potere e forza; come quel padre padrone che senza esclusione di colpi lascia a terra la propria figlia, trentenne e madre, sanguinante per il solo fatto di non rispettare un marito in carcere, l’onore e il rispetto delle due famiglie.
L’omaggio al coraggio delle protagoniste diventa, suo malgrado, il contraltare spietato della Giustizia, come quel corpo martoriato lasciato a terra; perché il prezzo da pagare è sempre a carico della vittima, che rimanga dentro o esca dalla Famiglia.
Un doppio nodo vincolante che pone nuove domande nello spettatore e fors’anche nelle attuali e future vittime delle famiglie di stampo mafioso (anche se si potrebbe allargare il raggio d’azione a tutte quelle donne vittime di abusi e violenza che non per forza di cose appartengono a famiglie appartenenti a clan mafiosi).
Una ultima menzione va fatta agli uomini delle serie tv, capaci di trasmettere, con le loro interpretazioni, tutta la brutalità del genere maschile. Menzione speciale per Francesco Colella (Carlo Cosco) che già in altre interpretazioni mostrò il suo valore; ma qui è davvero interprete sublime.
Perché guardare The Good Mothers? Perché è un atto di responsabilità civile conoscere la nostra storia e cultura. Perché è uno spaccato del nostro vivere. Perché, nonostante tutto, emergono con evidenza la bellezza ed i contrasti della Calabria.