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02/05/24 ore

Morire impiccati a Teheran


  • Florence Ursino

Una morte come un'altra, quella di Alireza Mafiha e Mohammad Ali Sarvari. Le impronte nuove sul patibolo innalzato dalla legge animale in nome di Dio perdono la perfezione di una linea per affastellarsi nell'approssimazione della presunzione umana. Niente di nuovo, sul fronte dell'omicidio legalizzato.

 

L'Iran appende i suoi figli alla corda e condanna la Giustizia ad un lento soffocamento; e lo fa ogni giorno, senza clamore di battaglia, forte di una genetica primitiva e a tratti incontrollabile. Poi succede che la forca diventa monumentale monito, simulacro portato in processione fuori dai luoghi del silenzio verso la piazza dell'inevitabile brusio e illuminato a giorno dai fari del 'buon esempio'.

 

Così “verranno trattati i responsabili” spiega Teheran puntando l'occhio di bue del terrore sui corpi penzoloni di due giovani, giovanissimi, troppo giovani uomini rei di aver rapinato un uomo brandendo un machete per le strade della capitale iraniana. Il video delle telecamere di sorveglianza finisce su youtube, le loro facce sul registro della morte.

 

A incastrarli la sfuggevole modernità, a ucciderli la radicata tradizione. Forse la fame, forse la povertà, forse l'insoddisfazione, forse l'incoscienza. Forse assassini, forse pazzi. Sicuramente criminali, di quelli che rientrano nelle statistiche di una città 'meno sicura'. Allora sarà lì che moriranno, dove la gente è solita sentirsi protetta, sorridente, rilassata, serena: le braccia meccaniche usate come forca montate proprio lì, davanti alla 'Casa della Cultura' di Teheran, ritrovo di vita.

 

Si aspetta la notte, il suo fondale nero più adatto alla rappresentazione, gli attori, Mafiha e Sarvari, sono pronti; intanto la folla si riunisce, qualcuno piange, qualcuno sussurra, qualcuno è, ancora, incredulo. Poi un piccolo, insignificante, tragico imprevisto: uno dei due giovani esce sconfitto dalla lotta inumana contro la Paura, il viso si contorce, la testa cerca riparo sulla spalla nera del boia mentre quest'ultimo, Pietà incappucciata, stringe la sua mano rassegnata sulla spalla del condannato.

 

Il dopo è cronaca: lo scatto di una foto, la velocità dei social network, la flebile protesta, la notizia asettica e quella sdegnata, la stanza buia della dimenticanza. Ecco, sto già scordando. La quotidianità mi invade la mente ma in qualche angolo delle mie stanze affollate penso a quale potesse essere la smorfia sotto il tessuto nero del servitore compassionevole mentre una stupida frase mi rimbomba in testa: “La borsa o la vita”. La borsa e la vita, la borsa è la vita. Entrambe perse, entrambe, in fin dei conti, di poca importanza.


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